LA RAGAZZA CHE PRENDEVA IL SOLE

Racconti Jacopo Marocco

1.

Pensavo di poter studiare qualcosa oggi, ma mi sbagliavo.

Che poi a saperlo non mi sarei mosso da casa, ma c'era questa favolosa giornata primaverile che mi chiamava da fuori, e al suo richiamo non ho resistito. Per questo sono venuto qui, al Tempietto – che non è altro che una chiesa edificata sui resti di un antico tempio romano che si trova alla fine di Corso Garibaldi, vicino alla porta di Sant'Angelo. E' un gran bel posto. Uno dei migliori di Perugia.

Davanti alla chiesa c'è un grande prato, diviso in due da un camminatoio. Certo, non sarà grande come quello della chiesa di San Francesco - un altro bel posto di Perugia -, ma è comunque un prato di tutto rispetto. Io poi, ad esser sinceri, preferisco questo rispetto all'altro: è più riservato, isolato, intimo quasi. Beh, di solito è così, certamente non oggi.

Capisco che è una bella giornata, d'accordo, ma non m'aspettavo di trovarci tutta 'sta cazzo di gente. Quando sono arrivato quasi non c'era posto per sdraiarsi o sedersi. E dire poi che sono arrivato all'ora di pranzo.

Forse sarei dovuto tornare a casa subito, appena arrivato, ma non mi andava: avrebbe significato aver fatto tutta la salita di Corso Garibaldi inutilmente - che con questo caldo non è uno scherzo, anche se non sei obeso e non hai un peacemaker addosso. Così, come fossi stato un cane in cerca del posto giusto dove liberarsi le budella, mi sono messo a cercare due metri quadrati di prato liberi. Poi, una volta trovati, sotto questo delizioso sole di inizio maggio, mi sono sdraiato sull'erba in compagnia di un dannato manuale di storia contemporanea.

Un sacco di coppiette intente a coccolarsi e scambiarsi effusioni, un numero spropositato di turisti che vanno e vengono dalla chiesa, un mucchio di ragazzini - forse in gita scolastica – e diversi patiti della tintarella da bassa stagione: ecco da chi è composta la fauna sociale che oggi infesta i pratini del Tempietto. Ah, dimenticavo, a completare il quadro, c'è anche qualche povero stronzo che, come me, oggi ha avuto la brillante idea di venire a studiare qui.

C'è gente insomma, c'è un bel vociare, che tuttavia non renderebbe impossibile lo studio, se non fosse per il fatto che su tutto e su tutti, ci sono quattro teste di cazzo poco più in là - tre ragazze e un ragazzo -, che non fanno che urlare come scimmie impazzite e ridere sguaiatamente per ogni minima stronzata. Sono più grandi di me, probabilmente studenti della specialistica, ma cerebralmente sembrano più piccoli dei ragazzini delle gite. Li odio. Ad ogni loro rumore sento le vene delle tempie pulsarmi e la mascella serrarsi. Prego. Prego che un fulmine cada dal cielo sereno e li centri tutti e quattro quanti sono. Ma so già che le mie preghiere non verranno ascoltate, so già che non succederà niente di tutto ciò, soprattutto davanti a una chiesa. Per cui faccio un bel respiro e cerco di far spazio nella mia mente per concentrarmi sullo studio, come farebbe un bravo monaco zen. Solo che io non sono un monaco zen, e quindi è tutto inutile.

Non sono passati neanche due minuti, che quei quattro terroristi della quiete pubblica si alzano e se ne vanno. Forse esiste un Dio. Il Karma, qualcosa. Nessun fulmine a ciel sereno, ma va bene uguale.

Ora si studia, penso. Ma mi sbaglio, di nuovo.

Sinuosa come un pantera nella giungla, vedo arrivare un angelo senza ali, ma con una magliettina bianca, un paio di shorts celesti e infradito. Si ferma a metà della stradina che porta alla chiesa, si tira sulla testa i due grossi occhialoni da sole che indossa e scruta l'intero prato – il quale somiglia sempre più a una spiaggia della riviera romagnola. Non ci mette molto a localizzare il piccolo spazio di prato libero davanti a me.

Eccola che arriva.

Dentro sento emozioni contrastanti: sono contento che si venga a sdraiare vicino a me, forse pure eccitato, ma sono anche un po' frustrato perché capisco che di studiare oggi non se ne parla. Mi sbagliavo a pensare che se quei quattro coglioni se ne fossero andati sarei riuscito a concentrarmi.

La ragazza srotola una stuoia per terra. Si toglie maglietta e shorts, scoprendo quel poco di fisico tonico ed asciutto che ancora era nascosto. Rimane con indosso solo uno striminzito bichini bianco tigrato. Poi dalla borsa tira fuori un i-pod, inserisce le cuffiette nelle orecchie e, dopo aver indossato di nuovo gli occhiali da sole, si sdraia supina.

Non riesco a staccarle gli occhi di dosso. Leggo due righe, poi guardo lei, e poi provo a guardare di nuovo il libro, ma tra le righe continuo a vedere questa creatura stupenda.

Ha capelli chiarissimi e una carnagione ancor più chiara: spero davvero per lei che prima di venire si sia messa una qualche protezione solare, se non vuole ritrovarsi stasera nel reparto Grandi Ustionati di qualche ospedale.

E' bellissima, anche se è una bellezza un po' volgare, forte, quelle bellezze da film porno o da ballerina di lap-dance.

Non sembra di queste parti. Scommetto che proviene da un qualche paese sperduto dell'Est Europa. Forse è un Erasmus, forse proprio una spogliarellista, o forse entrambe le cose, chissà. Certamente non è una turista, non ne ha proprio l'aria.

Mi devo girare su un fianco che a guardarla mi è venuto duro e mi da fastidio sentirlo premere sulla terra.

Ma stare su un fianco è imbarazzante: si vede chiaramente che sotto i miei pantaloncini corti c'è qualcosa che preme per uscire. Non perché chissà che porti là sotto, ma comunque si vede. Quindi mi metto seduto, così posso anche guardarla meglio: mi sento un mezzo maniaco, ma non riesco a non farlo, è un'opera d'arte cazzo, e l'arte è niente se non è ammirata.

Ormai il libro è un alibi: lei sembra dormire, ma in caso accennasse a muoversi, prontamente sposterò lo sguardo sulle pagine fingendo di essere interessato più alle beghe tra Stalin, Hitler e Winston Churchill, che a lei.

Il sole è più forte del solito. Batte forte, lo sento pulsare sulla pelle, sulla testa. Potrebbe benissimo essere una giornata di luglio. Scorgo i primi rossori sulle pelli slavate dei turisti nordeuropei.

Ho fame. Molta fame. Lo stomaco chiede cibo.

Tiro fuori i due panini al prosciutto che mi sono portato da casa. Li scarto con foga sentendo l'acquolina affogarmi la bocca. Nemmeno li mangio, li ingoio tanta è la fame che ho.

Non passano nemmeno cinque minuti e inizio a sentire la testa vuota e le palpebre farsi pesanti: l'effetto della digestione arriva con un tempismo perfetto.

Una piccola siesta, pochi minuti di pausa (pausa da cosa che non ha fatto nulla finora?) e poi riprenderò a studiare, ecco quello che mi riprometto.

Chiudo gli occhi.

2.

Riemergo dal sonno come se tornassi da un'altra dimensione, dall'aldilà.

Mi tiro su a sedere. La testa mi fa un male assurdo: le tempie mi pulsano più forte di quando sentivo gli schiamazzi di quei quattro idioti, prima. Prima, già ma quanto prima? Guardo l'orologio e ho un sussulto: cazzo, sono le sette passate! Non erano nemmeno le due quando mi sono appisolato. Ho dormito circa cinque ore? Possibile? Devo essere svenuto sotto il sole cocente. E' possibile svenire nel sonno?

Un leggero senso di colpa per aver sprecato un'intera giornata di studio - a tre giorni dall'esame - tenta di farsi largo, ma lo reprimo subito. Sono un maestro in questo ormai.

Intanto il sole sta tramontando. Intorno a me non c'è più nessuno. Il prato, a parte qualche cartaccia, è tornato ad esser verde. Non c'è più nessuna coppietta, nessun turista affascinato dalla “bella Umbria”, nessun ragazzino, nessun altro povero stronzo che tenta di studiare.

Deserto. No, mi sbaglio. Con mia grossa sorpresa scopro che c'è solo un'altra persona rimasta:

la ragazza dell'est, l'angelo senza ali. Mi balena in mente un pensiero: forse è restata per me. Ma questo pensiero, già di per se assurdo, viene spazzato via in un istante quando le vedo addosso una cosa che non mi piace affatto, che mi riporta alla mente qualcosa di spiacevole.

3.

Da piccolo avevo una gatta, una trovatella, che si era palesata un giorno a casa nostra dopo aver passato quello che sembrava un lungo periodo di digiuno - sia di cibo che di affetto. La prendemmo con noi che era magrissima, ma seppur dispensata di tutto il cibo e dell'affetto che le era stato negato prima, rimase comunque magra. Così me ne accorsi subito quando rimase gravida: secca quasi da sembrar reggere l'anima con i denti, le venne una pancia gonfia come non mai. Sembrava essersi inghiottita un pallone da calcio.

Iniziai ad aspettare con ansia il giorno in cui avrebbe dato alla luce i cuccioli. Ogni giorno, quando tornavo da scuola, non facevo nemmeno fermare la macchina della mamma, che scendevo e di corsa andavo cercarla per vedere se aveva partorito.

Poi un giorno, per un intera giornata, non si fece vedere. Ero preoccupato, ma mi tranquillizzai quando il mattino seguente, prima di andare a scuola, la vidi come di consueto tendere agguati ai merli che si posavano davanti casa per beccare qualche mollica scrollata dalla tovaglia la sera prima.

Quando tornai da scuola, non la trovai di nuovo. Solo nel tardo pomeriggio si fece viva, reclamando con un insistente miagolio le sue adorate crocchette. Fu solo allora che mi accorsi di una cosa che il mattino mi era proprio sfuggita: la sua pancia non era più gonfia, era tornata la gattina filiforme di sempre.

Aspettai che finisse il suo pasto, poi la seguii. La vidi andare verso la rimessa degli attrezzi di mio nonno, gironzolarci un po' intorno e poi, con un balzo, entrare da una piccola finestra aperta su un lato.

Aveva deciso di dare alla luce i suoi piccoli nel posto, a mio avviso, peggiore di tutti: là dentro c'erano tutti attrezzi pericolosi con cui mio nonno coltivava l'orto come forconi, falci, zappe, ma anche sostanze velenose come la lumachite e il veleno per topi.

Stavo per andare verso la rimessa, quando sentii una mano poggiarsi sulla mia spalla: era mio nonno. Mi disse:

“Non andare, ha partorito solo ieri, lasciala sola che spesso le bestie sono gelose dei propri cuccioli”

Stetti un attimo in silenzio guardando con ansia verso la rimessa, poi dissi:

“Ma lì dentro fa freddo la notte, e poi è pericoloso, non sarebbe meglio portarli in casa”

“Guai a spostarli o a toccarglieli, potrebbe abbandonarli e lasciarli morire. Considera poi che è la prima volta che partorisce, potrebbe stufarsi di accudire la cucciolata per un qualsiasi motivo. Non rischiamo.

E poi solo lei sa cosa è meglio per loro, se ha scelto quel posto c'è un motivo. Lascia fare alla Natura...”

Non replicai, cercando di soffocare la rabbia che da bambini si prova quando non si capiscono certe regole che governano il mondo, la natura, la vita e che solo crescendo si riescono ad accettare.

Poi mio nonno mi prese per mano e mi accompagnò verso la rimessa. Lì per lì non capii: non aveva appena detto che non bisognava disturbare la gatta?

Andammo verso il lato in cui c'era la finestrella dove poco prima la gatta era entrata. Vidi il nonno sbirciare dentro e sorridere. Poi mi afferrò per i fianchi e, senza sforzo alcuno, mi tirò su per far vedere anche a me.

Nonostante la poca luce lì dentro, li trovai subito: sopra a una rete per raccogliere le olive, la gatta se ne stava sdraiata su un fianco come una matrona romana, con due esserini poco più grandi di un topolino di campagna che le succhiavano avidamente il latte.

Quanto avrei voluto entrare per vederli più da vicino, per toccarli, giocarci, ma repressi a fondo quel desiderio e lasciai perdere.

Misi una sedia sotto la finestra della rimessa e i due o tre giorni seguenti ci salii in continuazione per vedere, almeno a distanza, i cuccioli. Poi però, stranamente, persi interesse per il lieto evento delle gattina, quasi me ne dimenticai: forse il monito di mio nonno a non avvicinarmi oltre aveva funzionato, oppure la novità mia aveva già stufato, chissà. Fatto sta che non me ne accorsi subito quando, circa una settimana dopo aver partorito, la gatta iniziò a passare più tempo fuori dalla rimessa che dentro. Poi una notte, la gatta la trascorse tutta in casa di mia nonna, così il giorno dopo, ruppi ogni indugio ed entrai nella rimessa.

Mi accorsi subito che la rete da olive su cui c'erano i gattini era stata spostata rispetto a dove era originariamente: prima era quasi al centro delle rimessa, ora invece era in un angolo, in fondo.

I cuccioli erano soli, uno addosso all'altro. Si muovevano appena. Della madre nessuna traccia.

Ne carezzai uno, poi un altro. Reagirono appena. Uno aveva gli occhi semichiusi ed era identico alla madre: bianco, pezzato nero; mentre l'altro, che aveva gli occhi aperti del tutto, era tutto nero.

Un flebile miagolio si levava dalle loro minuscole gole. Ne presi delicatamente uno in mano, quello con gli occhi semichiusi. Tremava, quasi impercettibilmente, ma tremava. Gli passai l'indice sopra la piccola testa: il gattino si mosse leggermente, ma non diede segni di gran vitalità, come l'altro del resto. Strano, pensai. Avevo già visto altre cucciolate precedentemente, quelle della gatta di mia zia e quelli della micetta di un mio amico, e ricordavo che quei gattini erano molto più vivaci di questi.

Non ci misi molto a capire cos'era che non andava: la madre non se ne interessava più. Se ne andava a caccia di merli, gironzolava intorno a casa, si metteva a dormire sulle ginocchia della nonna, ma non accudiva più i suoi cuccioli. E capii anche perché erano stati abbandonati: la gatta non aveva tollerato il fatto che gli avessero spostato il suo “nido”.

Corsi in casa dal nonno, e non appena lo vidi gli feci furioso:

“Brutto stronzo, mi hai detto di non toccarli e poi tu sei stato il primo a farlo”. Era la prima volta che dicevo una parolaccia così a mio nonno, ma ero pieno di rabbia e non seppi controllarmi.

“Che è successo?” fece lui, sorvolando al momento sul fatto che gli avessi appena dato dello stronzo.

“I gattini...” feci, sentendo gli occhi gonfiarsi di lacrime ”...la gatta li ha abbandonati!”

Vedi formarsi un'espressione amara sul viso del nonno.

“Me lo immaginavo...” disse. Si fermò un attimo, come per valutare se fosse il caso o meno di proseguire. Poi riprese:

“L'altro ieri con tuo padre dovevamo tirar fuori la motozappa per portarla a riparare. Non sapevamo come fare perché la rete dove la gatta aveva partorito era proprio lì davanti. Per portar fuori la motozappa dalla rimessa, abbiamo dovuto per forza spostarla. Siamo stati attenti, delicati, ma evidentemente non è servito...”

Corsi via, piangendo.

Andai dalla nonna, singhiozzando le spiegai la situazione e le chiesi se aveva una coperta da darmi per i cuccioli, ma non me la diede, anzi, disse:

“Se li ha abbandonati tanto meglio, fosse stato per me li avrei affogati appena nati, ma tuo nonno ha insistito che non lo facessi...beh, sai com'è, comanda lui, o almeno glielo lascio credere...”

Non volli sentire una parola di più. Corsi via anche da lei, andai da mia madre sperando che anche lei non mi tradisse, ma non la trovai: non era ancora tornata dal lavoro. Così, fregandomene di tutti e tutto, sfilai la coperta del mio letto e corsi fuori.

Entrai nella rimessa. I due piccoli felini erano praticamente immobili, di nuovo uno addosso all'altro. Li presi e con cura li misi nella coperta. Poi uscii fuori e la sistemai sull'erba, in giardino. Speravo che il sole primaverile, che scalda ma non brucia, li avrebbe aiutati, curati.

Stetti a guardarli qualche minuto, senza che loro dessero un minimo segno di ripresa. La madre se ne stava accoccolata un po' più là, al sole anch'essa, indifferente. L'andai a prendere e la misi accanto ai figli, ma sgattaiolò via veloce non appena la lasciai. Preso dalla rabbia le scagliai addosso un sasso, mancandola. In quel momento la odiai.

Tornai di nuovo in casa, aprii il frigo e tirai fuori la scatola del latte. Poi andai nella camera da letto dei miei nonni e frugai nel cassettone in cerca delle siringhe con cui al tempo mia nonna si faceva iniezioni di non so cosa. Una volta trovate, ne presi una e mi diressi in cucina. Riempii un bicchiere di latte e con la siringa, senza ago, ne aspirai un po'. In quell'istante entrò mia nonna che vedendomi fare quella cosa, andò su tutte le furie. Driblai una sberla e, con la siringa in mano, uscii di corsa fuori.

Mi sedetti di fianco ai gatti. Un grosso moscone color blu metallico volava freneticamente da un gatto all'altro. Lo scacciai e presi in mano il gattino pezzato. Gli misi il beccuccio della siringa sulle labbra: una volta in tv avevo visto dare il latte a un gattino abbandonato proprio in quella maniera, con la siringa. Speravo che sentendo l'odore o il sapore del latte, avrebbe iniziato a ciucciare da solo, ma invece le sue labbra rimasero serrate. Provai allora a forzarle. Ci riuscii, ma il latte non veniva assolutamente ingoiato, finendo per fuoriuscire tutto dai lati della bocca. Insofferente per la mancanza di risultati, posai il gatto pezzato e provai a ripetere l'operazione con quello nero - il quale fino a poco prima aveva gli occhi più aperti dell'altro e che invece ora li aveva praticamente chiusi. Ebbi lo stesso insoddisfacente risultato anche con questo. Dovevano essere circa tre giorni che non mangiavano, era un miracolo che avessero resistito così a lungo, eppure non sembravano aver fame. Rassegnato, lo posai sulla coperta. Debolmente, e faticosamente, lo vidi arrancare verso il fratello e quasi diventare un tutt'uno. Veloce arrivò di nuovo quel moscone blu e ci si posò sopra.

Sentii il nonno uscire di casa. Lo vidi venire verso di me.

Mi alzai e gli andai subito incontro, chiedendogli disperato se potevamo portare i gatti da un veterinario: ancora respiravano, quindi c'era speranza. Non rispose lì per lì. Lo portai da loro.

“Allora, ce li portiamo?” ripetei ansioso.

“Vedi quel moscone?” fece lui.

Fissai l'insetto che ora era esattamente sopra l'occhio chiuso del gatto pezzato poi, con tono indispettito, feci:

“Sì lo vedo, beh?”

Che c'entrava chiedermi se vedessi quel moscone? Perché non mi diceva se potevamo portare o meno i gatti da un veterinario?

“Quello è l'angelo della morte” disse mio nonno con una certa solennità.

“Eh? Cosa? L'angelo della morte? Che significa?”

Non capivo proprio dove volesse andare a parare.

“Significa che è arrivata la loro ora e noi non possiamo farci nulla.”

Quell'insetto, o l'angelo della morte come lo chiamava mio nonno, scoprii anni dopo essere la Calliphora vomitoria, meglio conosciuta come Moscone blu della carne, un tipo di mosca che fiuta l'odore di cadavere (umano o animale che sia) a centinaia di metri e sul quale poi depone le sue uova.

Guardai di nuovo i due poveri micetti: quasi si poteva vedere distintamente la vita staccarsi dai loro piccoli corpi. Scacciai ancora quella mosca portatrice di orribili presagi, soffocando di nuovo quella rabbia che si prova a quell'età, quando non si capiscono certe regole che governano il mondo, la natura, la vita, e che solo crescendo si riescono ad accettare.

4.

Ora, quel moscone blu metallico è proprio sulla fronte della ragazza davanti a me.

Cercando di scacciare la consapevolezza di ciò che quell'insetto significa, mi avvicino a lei.

“Hey...” le faccio.

Nessuna risposta.

Continuo:

“Hey, guarda che tra poco arriva il custode a chiudere il cancello, è tardi, bisogna andarsene...”

Niente, nisba, nada de nada.

Mi inginocchio di fianco al suo bel corpo.

La sua pelle ha un colore strano: un misto tra il rosso della scottatura e il viola della morte. Le sfilo un auricolare dell'i-pod dall'orecchio e tento ancora di destarla con la voce:

“Hey, è tardi, bisogna andarsene, siamo rimasti solo noi!”

Nessun segno di risposta.

Le tocco una spalla, è gelida. La scuoto un po', ma è rigida.

Sento il panico liberarsi dai meandri del mio cervello e insinuarsi violentemente in ogni fibra del mio corpo.

Il moscone non si muove, le rimane come incollato al corpo: l'angelo della morte è venuto per compiere il suo dovere e non se ne va.

Provo a tastarle la gola per sentire se il suo cuore ancora batte, come fanno nei film, ma non so bene dove si debba tastare, quale sia il punto preciso: in tv sembra facile, nella vita reale no. Così con l'indice e il medio prendo a toccare qua e là un po' per tutta la gola, ma non sento proprio nulla. Le tocco il polso, ma anche lì nessun battito.

Il cuore scalpita nel mio petto come un cavallo imbizzarrito. Sto sudando a freddo. Ora capisco perché appena svegliato ho avuto la sensazione di tornare da un'altra dimensione: mentre dormivo la vecchia signora incappucciata mi è passata accanto e la sua aurea deve aver influenzato il mio sonno.

Prendo fuori dalla tasca dei pantaloni il cellulare. Ho le mani tremanti, ma riesco comunque a chiamare un'ambulanza. E mentre attendo l'arrivo di qualcuno, mi ritrovo ancora a soffocare quella rabbia che da bambini si prova quando non si capiscono certe regole che governano il mondo, la natura, la vita, e che nemmeno crescendo ho imparato ad accettare.

FINE

Jacopo Marocco
Jacopo Marocco
Jacopo Marocco, aspirante scrittore aspirato mezzo spirato, in erba e sporco d'erba.

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9 Commenti

  1. bello! ...e poi hai citato la Calliphora vomitoria.
    All'università ero appassionato di mosche... eh eh

  2. ora scruterò con terrore i riflessi di colore delle mosche che mi ronzano intorno 😉

  3. Benvenuto Jacopo... mi hai tenuta aggrappata allo schermo del pc come sempre... e mentre i nonni parlavano sono tornata alla mente alla mia infanzia passata in campagna... a quando ho scoperto che i cuccioli della cagnona Bianca erano stati affogati dal vicino per liberarci tutti dall'onere di trovare loro una casa... ai pianti e all'odio che provai per lui incapace di comprendere... l'angelo della morte tante volte si è posato vicino a me... ma mai credo riuscirò a comprendere le leggi che governano il mondo...

  4. ...mi hai fatto venire in mente mMImmo, un mio amico... 🙂 qualche anno fa incrociando sua figlia che usciva le chiese dove stesse andando... e lei, mostrandogli una pila di libri rispose che andava a studiare.
    e lui... "hai troppi libri. non ci credo che stai andando a studiare..."

    quindi se uno muore al sole, la melanina continua a funzionare tanto da rendere abbronzato il cadavere... mentre le membra si ghiacciano per la mancanza di circolazione e malgrado i raggi del sole... (macabre curiosita', lo so, non dirmi niente... :))) )

  5. ciao jacopo, anche qui? :))
    belli e imprevedibili come sempre i tuoi scritti...e poi, io le mosche già le odiavo, figuriamoci ora :))

    • non mi risulta di averti fatto complimenti, quindi non vedo di cosa tu debba ringraziare me, tra i tutti.
      inoltre trovo veramente di scarsissima utilita' gli scambi di cortesia.
      piu' o meno come il link in replica ai tuoi "recent post"

      sveglia

  6. Sai che mi era piaciuto...benvenuto amico mio 🙂


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