La mia camera è una china –
tutt’altro che accidentata;
è un liscio scivolare tra grappi di stelle,
è un panneggio del Pontormo,
una perduta danza
che danza nel cuore della danza.
E’ l’assito di un ponte in dissesto,
la lama smussata.
Un fuoco calmo vi brucia e avviluppa.
E vi sono note familiari solo lì.
C’è Bertolt Brecht fuori e dentro
una canzone rock,
c’è un acustico lamento blues
che tante notti ha cullato;
c’è la dannazione elettrica
di John Lee Hooker,
e c’è il mistico ipnotico
di una cantata di Bach,
con voci che hanno algido pathos –
che son geometria dell’anima –
e un clavicembalo
la cui musica ha la bellezza
dei cristalli di ghiaccio.
Ci sono le mani di Johnny Cash,
e la chitarra sofferente di Jimi Hendrix
che simula la distruzione della guerra,
trasvalutando l’inno americano.
E c’è Joan Baez che canta
con voce argentina
una lunga ballata di amore e morte;
un Bob Dylan che esplode
nel sole della liberazione simbolica,
con parole come gemme preziose
incastonate nel fango della vita.
C’è Patti Smith che graffia e guarisce,
c’è Miles Davis che carezza ferite profonde
col balsamo di malinconiche note di velluto.
E mentre La Danse Macabre
evoca un dinoccolo di ossa in danza
e i violini stridono di suoni sghembi,
penso che questo posto galleggia
come una zattera nella nebbia.
Sonoquisonoquisonoqui – fisso,
come il chiodo arrugginito
ben confitto nel legno fradicio di un relitto
che non approda a nessuna spiaggia.
POSCRITTO SARCASTICO-ELEGIACO AI CENNI DESCRITTIVI DI UN INTIMO MONDO DI GIOCATTOLI
Céline scrive che siamo rosa e vulnerabili –
proprio come vermi –
e che ci avviticchiamo anche attorno
alla più esile o insensata delle speranze,
se questo può servire a lenire,o ammantare di senso,
la trasmodante sofferenza a cui siamo inchiodati,
da sempre,anima e carne –
il coraggio non fa per noi.
Meglio,piuttosto,girare la pavidità in sobria virtù
con ogni sorta di artificiosa mediazione.
Allora,illusioni e suppellettili morali d’ogni foggia
verranno in nostro soccorso –
facendo del nostro dramma un cosmico spettacolo
per divinità garanti di senso e bontà,
della nostra vita un ponte per qualcosa di grande a venire –
come un velo rosa calando sulla luce fredda e spietata
che hanno tutte le cose della vita
nella lucida chiaroveggenza di chi sceglie invece l’abisso:
costui fa del veleno della sofferenza il suo miele prezioso,
e invero,il solo modo per non rimanerne intossicati
è sceglierlo d’arbitrio,
essere finalmente vittime e carnefici di se stessi
tramutandolo in antidoto…
costui è un folle lucido e non ebbro di spirituali,
romantiche acquaviti dello spirito.
Io non ho la sua fermezza,la sua forza,il suo autodominio,
e il mio desiderio altalena tra l’appagato e l’inappagato,
le mie parole altalenano tra l’espresso e l’inespresso –
sono,l’uno e le altre,come il fumo di sigaretta –
mentre la vita mi condanna,come in contumacia,
ad una vigliaccheria piena di lustrini,
e la mia camera diviene un ricettacolo di artifici
per disincarnare la vita dalla vita.
Massimo Triolo
Già....
a me piace vedere "l'utilizzo della parola" al posto della tua camera, come massimo artificio per disincarnare la vita dalla vita.
Non esiste artificio peggiore e innaturale del parlare...
Ben scritto, comunque!
Preferisco vedere in una forma di espressione sincera,seppure mediata dalle parole e da uno stile - che sono strumenti e non artifici - una stilla di bellezza e di catarsi,nella partitura piana e prosastica del quotidiano.
Le parole non sono mai mero artificio,se producono significati:piuttosto,sono strumenti che si possono usare più o meno bene,in funzione di ciò che si esprime...e il mio scritto,è,in chiave catartica,una produzione di significati legati all'humus del mio mondo privato.