METROPOLITAN VAMPIRES

Racconti Manuela Catania

Sette e venticinque. Ma l'orologio della cucina è avanti di dieci minuti per impedirmi di fare tardi. Un inganno conscio, insomma. Sciolgo  i capelli e  scuotendo la testa li rianimo. Afferro le chiavi di casa sul tavolo della cucina e faccio scivolare il cellulare nella borsetta bordeaux, consapevole di quanto sarà difficile rinvenirlo. Funziona così con le borse delle donne. Il portoncino blindato si chiude alla mie spalle con un clack perentorio. Due mandate, chiavi in borsa, a far compagnia al telefonino. Lo ritroverò in non meno di due minuti di ricerca, e solo grazie ad abilità tattili sviluppate in anni e anni di rimestamento. Giù per le scale in pochi istanti. Temo i miei automatismi. Col passare del tempo sempre di più. Ad esempio mi rendo conto ora che il fatto di aver sceso le scale per me è solo un'ipotesi. Non ricordo di averlo fatto, ma so che è successo solo perché il mio palazzo non possiede ascensore e io non ho ali. Chiudo il portone in ferro  e vetro dell'ingresso. Quando si richiude tremano i vetri e ho sempre il timore che ne venga giù uno, un giorno o l'altro. Suole scricchiolanti. Accendo l'ipod e in fretta il mio passo acquisisce lo stesso ritmo incalzante del pezzo che le cuffie stanno trasfondendomi nelle orecchie. Un'ombra approssimativa sale su una Panda verde al lato opposto della strada; ha la sagoma del mio dirimpettaio: un carabiniere con l'estro da musicista,  che strimpella malamente un pianoforte martoriato durante il week end. Alzo una mano in segno di saluto senza curarmi  che mi abbia realmente vista.

Sta ancora albeggiando, ma nell'odore frizzante e dall'azzurro timido del cielo sembra di poter indovinare una bella giornata. Metereologicamente parlando, quantomeno. Ancora qualche passo e guadagno la fermata dell'autobus. Qui sembra già giorno inoltrato. Sono forse anni che rivedo gli stessi visi ogni mattina sotto questa pensilina. Un ostinato senso comune mi obbliga a definirli “sconosciuti”. Eppure  di qualcuno di loro ho ben chiare svariate espressioni, certi vezzi. Forse potrei addirittura indovinare i loro abiti preferiti, quelli che indossano più di frequente o con i quali sembrano più a loro agio. Questo ragazzo, ad esempio. Questo appoggiato alla palina, sulla mia destra, con l'aria molto distinta che si dondola sui talloni. Lui. Indossa sempre pantaloni dal taglio elegante, con colori dal sapore autunnale. Verde militare, Marrone, Beige. A volte veste anche con giacche un po' casual ma comunque giacche di buon taglio, tendenzialmente in velluto, di quel velluto a coste con cui fanno giacche e pantaloni autunnali, per l'appunto. Penso di averlo visto qualche volta anche con cravatte, sempre molto modeste nelle tinte, mai particolarmente estrose. Ha  questo viso dai tratti fini e regolari e  i capelli biondo cenere che appaiono sottili e morbidi, gli incorniciano il viso dandogli l'aria di un principino metropolitano, un po’ fuori tempo. In confidenza, tutto questo però non l'ho notato che qualche giorno fa. Non prima. Penso di aver realizzato della sua esistenza allora, seppure lo intravedessi già da tempo.

Stavo in piedi sull'autobus, reggendomi a stento ai sostegni per la velocità che aveva raggiunto il mezzo, ma certa di non potere cadere, tanta era la gente accalcata attorno. Adolescenti, impiegati, manovali, avevo già dato a tutti una collocazione sociale. Sembra che a noi umani questo rassicuri. Lui stava seduto nemmeno ad un metro da me, in uno di quei posti doppi, e occupava il sedile subito sotto al finestrino. Guardava  al di là del vetro e con una mano liscia e curata da colletto bianco, stringeva un telefono cellulare. Solo qualche istante dopo cominciò a scrivere un sms, ma dal modo nervoso in cui lo faceva , pareva contenere un messaggio importante o, quanto meno, compromettente. Scriveva interrompendosi spesso. Sembrava componesse e cancellasse un attimo dopo, perché digitava con attenzione per poi schiacciare distrattamente e con fare inquieto uno stesso tasto, rivolgendosi nuovamente verso il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino. Intervallava fugaci pigiate di tasti a gesti frenetici pressocchè insignificanti. Frugava nelle tasche. Si tirava indietro una ciocca di capelli. Sistemava il colletto della camicia. Sì. Quasi insignificanti: finchè non mi accorsi che un gesto in particolare veniva ripetuto spesso con l'altra mano, ed era forse il più nervoso perché quando lo compiva si guardava intorno per assicurarsi che nessuno lo stesse guardando. Non colsi subito che tipo di gesto fosse, ma quando lo notai finsi di cercare qualcosa in borsa e di non prestargli attenzione. Un attimo dopo con discrezione lo osservai più attentamente e mi accorsi che con la mano libera si grattava la testa in modo quasi impercettibile ma continuo, nevrotico, quasi violento nella sua ostinata lentezza. Mi feci una sorta di breccia visiva  tra la gente che avevo tra me e lui e misi nuovamente mano alla borsa tirandone fuori un libro, quasi a far credere di essere assorta nei fatti miei, ma non appena lo ebbi in mano lo aprii ad un una pagina qualsiasi e  ricominciai a guardare il ragazzo. Il cellulare era sempre nella sua mano destra e il display acceso, ma lui adesso guardava altrove, pareva cercasse  di carpire da quell'asfalto sfuggente una sorta di ispirazione che tardava ad arrivare. Mi accorsi in fretta che era distratto e quel gesto doveva essere una specie di mania  che gli apparteneva nei momenti di maggiore ansia. Approfittai di una frenata più brusca delle altre e, sempre molto discretamente, mi avvicinai a lui, che aveva accavallato le gambe e corrugava la fronte come se quel pensiero tormentoso fosse diventato più presente che mai. E proprio quando questo stato d'animo sembrava più palpabile, ecco che quella mano si sollevò di nuovo ricominciando a torturargli il capo. Le dita si muovevano caute  sotto i capelli come un serpente sotto la sabbia, insistevano sullo stesso punto per diverso tempo, a volte anche per svariati  minuti. Fu quando iniziai a pensare che questo mio interesse a quelle minuzie da niente cominciasse ad avere un che di patologico, che lui levò lentamente la mano dalla chioma. Adagio. Richiudendo le dita quasi a pugno e riaprendole un attimo dopo. I polpastrelli di tre dita erano completamente bagnati di sangue vivo. Tanto vivo da sembrare quasi arancione. Solo allora si voltò con disinvoltura verso il finestrino, e tentando di celare come possibile il gesto ai passeggeri che gli stavano intorno, ripose il cellulare in una tasca della giacca e iniziò a succhiare i polpastrelli. Uno ad uno. Con la lentezza goduta che solo ad un bel rito si dedicherebbe. Allora, e allora solamente,  la fronte si distese ridonandogli la sua espressione da nobile d'altri tempi.

Ed ora mi è qui accanto. Totalmente ignaro d’avermi confidato il suo segreto. Ondeggia avanti e indietro. Punta tallone punta tallone. Si ferma. Allunga il collo sulla strada esaminando l’orizzonte. Si accorge del mio sguardo su di lui, ma finge di non prestarvi attenzione. Torna a dondolarsi mentre sposta il polsino dal quadrante dell’orologio. Lo scruta, risistema e si sporge nuovamente. Distolgo lo sguardo e mi affaccio anch’io. Intravedo finalmente l'autobus. Un enorme balenottero arancione che naviga goffamente nella mia direzione. Sembra instabile tanto è colmo, e invece, come per magia, ad ogni fermata, apre le sue fauci e reingloba almeno il doppio delle persone che ha vomitato. Incredibile. E disumano. Incredibilmente disumano. L'autovettura si ferma davanti a me con un fischio lungo e fiacco dei freni. Sbuffa e spalanca le porte avvolgendomi in una nube calda e  invisibile di polvere e gas di scarico. La gente si accalca in prossimità dei tre ingressi; in particolare predilige la porta centrale e quella posteriore. Mi dirigo verso quella anteriore sperando  di trovare uno spazio vitale più comodo. Il principino è appena dietro di me. Subito dietro di me. Addosso.

Il principino. Che sciocchezze. Prima o poi combinerò qualche guaio e dovrò ringraziare soltanto questa testaccia sempre tra le nuvole. Calca. Spintoni. Fiati. Gesti indistinti. Permessooo,  permesso, grazie! Il principino è riuscito a farsi largo, mi ha appena urtata ed è passato oltre. Si volta un attimo. Un suo sguardo rapido mi investe e fugge. Abbozza un sorriso. Ha il viso sereno, mentre una piccola ferita sul mio collo si fa annunciare da un lieve bruciore e una chiazza amaranto ancora umida, mi si allarga lentamente sulla t-shirt.

Manuela Catania

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5 Commenti

  1. quella cosa dell'orologio la faceva mia nonna. non ho mai capito come le funzionasse il cervello in fatto di tempo. leggendo il pezzo ho pensato prima di tutto ai miei automatismi. in origine a scuola, facevo il compito e non ricordavo di averlo fatto. allora mi veniva il panico ("che cazzo avro' scritto?") e rileggevo veloce. poi, visto che i conti tornavano sempre, ho cominciato a fidarmi. fino ad ora non mi sono rotto la testa, e di anni ne ho diversi. (saro' un vampiro?)
    e poi, scusa, ma quando il tipo cominciava a grattarsi, ho pensato "weh ma si grattera' forse le balle...?"... 🙂 perdono.
    bel pezzo, cmq.

  2. bel pezzo concordo con Kap.
    E ammetto che se ripenso ai miei automatismi la lista è talmente tanto lunga che non riempirebbe una pagina intera. Invece per quanto riguarda l'orologio della cucina, beh il mio va avanti di cinque minuti, ma me ne sono ricordata solo ora che ho letto il tuo racconto!

    • 🙂 Marie', una volta pensavo di aver "perso" un'ora. e scoprii solo alla fermata dell'autobus di stare idietro di... due giorni...

      • sai Kap, io non ho un buon rapporto con il tempo... di natura tendo a correre troppo, ma ho imparato anche a fare tardi.
        Il mio compagno vive invece il tempo dilatato e grazie a lui ho scoperto che andare piano porta a fare molte più cose e anche meglio riuscite. Così mi sto disintossicando dal correre e mi accorgo che la vita ha un altro sapore. Potrei azzardare che sono scesa dal treno.


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