Una storia di poco conto

Racconti Andrea Pomella

Stamattina osservavo quella debole luce acquatica che da due giorni risplende sulle strade di Roma. I marciapiedi erano ricoperti da uno strato fitto di foglie gialle, e nel cielo ormai di dicembre si addensavano le nubi, mentre ogni tanto faceva capolino un sole allegro e meschino, e subito la luce del mattino mutava come una pelle di camaleonte, diventava di uno strano colore arancio-verde. Mi sono trovato a passare in un quartiere di periferia, fatto di torri e di palazzi lunghi come transatlantici, un posto che sembrava spopolato perfino nell’ora di punta. Alla periferia di Roma anche gli autobus assumono un altro colore. Sono dei pachidermi lenti e pieni di occhi scuri, di gente scontenta.

Sono entrato in un bar a fare colazione, i due tavolini all’interno erano entrambi occupati, il primo da un uomo, il secondo da una donna. L’uomo e la donna compivano gli stessi gesti: leggevano. Anche il giornale era lo stesso, un free-press. Immagino che il padrone del bar fosse in sospetto di taccagneria, se è vero che non offriva ai clienti neppure l’occasione di scegliersi il giornale del mattino, magari prendendo la precauzione di attaccarlo a quella semplice asta di legno dotata di fermi con cui si bloccano al centro le pagine dei quotidiani.

Alle otto passate nessuno dei due aveva fretta, la loro lettura sembrava anzi di una dolcezza indicibile, come se il turno lavorativo per entrambi fosse già alle spalle, e magari lo era per davvero. Che so, lei è un’infermiera della vicina clinica privata, la notte passata di guardia a vegliare un citofono e svuotare orinali, lui un portiere di un condominio per famiglie ricche, o un semplice albergo di poche pretese, e l’insonnia che lo divora ormai dal tempo remoto in cui per mestiere ha scambiato il giorno con la notte. Il caso li ha portati entrambi nello stesso bar, a fare le stesse cose, forse a leggere lo stesso articolo sullo stesso giornale, e inconsapevoli come siamo del tempo e del luogo che ci ospita ci ritroviamo in tre dentro la stessa storia.

Ora sono le tre del pomeriggio. E quell’uomo e quella donna (che adesso rispondono agli ordini impartiti dal mio piccolo racconto d’invenzione) secondo logica dovrebbero dormire. O forse basta loro qualche ora al mattino, e il pomeriggio da spendere per le commesse in banca, a fare la spesa nel supermercato, o per andare a trovare una madre in campagna, ad accompagnare uno zio in un parco, a prendere un figlio a scuola. Tu lo sai che se non ti affretti a lasciare tutto sul tavolo, comprese le briciole, se non ti risolvi a smettere di condizionare i destini della gente, finisci per cadere in un altro mondo? Già, eppure avrei una gran voglia di passare di là domattina e chiedere loro di quanto sono andato vicino a scoprirne le miserie, per dare una sistemazione amichevole a tutta questa storia e offrirgli in cambio la mia, altrettanto ignobile e insignificante, mai attraente, neppure con lo sforzo di fantasia di un osservatore di passaggio.

Andrea Pomella
Andrea Pomella
Sono nato a Roma quando c’erano gli anni di piombo. Ho pubblicato un po’ di libri, qualcuno era un romanzo, qualcun altro aveva a che fare con Caravaggio, Van Gogh e i Musei Vaticani. In uno di questi c’era una prefazione di Maurizio Calvesi. Ho scritto libretti per opere di musica da camera contemporanea, tra cui un canto di guerra per Pasolini gridato con la forza e col cuore dal grande Benat Achiary. Da qualche tempo collaboro con le pagine culturali dell’Unione Sarda, dove scrivo di libri e di autori del mondo, e ogni giorno, con la luce sempre scarsa del mattino, faccio un giro sulla Stella d’Occidente. Una volta ad Ales mi hanno dato il premio Gramsci per un racconto di guerra. Io ne vado molto fiero, Gramsci non so.

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5 Commenti

  1. Andrea complimenti... bellissimo squarcio di fantasia nella vita reale, notevole

    • Grazie Karen, troppo buona.

  2. Molto bello.
    E' un "gioco" che a volte faccio anch'io, immaginando chissà quali vite si possano celare dietro lo sguardo di "uno sconosciuto".

  3. che belllo scoprire che non capita solo a me di perdermi nell'immaginare vite dietro volti e gesti che incontro per strada. Ormai è diventato un gioco. Un gioco tutto mio che mi accompagna dutrante le mie azioni quotidiane. Mi piace perdermi anche dietro ai muri di recinzione o le persiane socchiuse. Immaginare attaverso oggetti, gusti, ipotetici abitanti di quei luoghi con le loro fisse e abitudini.
    Felice di non sapermi soa in questo gioco.

  4. Lo ammetto, capitava anche a me...

    peccato che ora il degrado rende uguali tutti i possibili risvolti delle vite altrui, persino a immaginarle.


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