Antefatto
- Entra pure, figliolo. Ecco, siedi qui di fronte a me.
- Sì, padre.
- Vedi, mio caro Henry, vi sono alcuni fatti di gran peso, di cui è venuto il momento che ti parli. Oggi è un giorno importante, tu compi la maggiore età. Ed io avevo deciso da tempo di metterti a parte, in questa speciale occasione, di cose che risalgono a molti anni fa… ma che ti riguardano direttamente.
Adesso apri l’astuccio che hai davanti.
- Un pugnale… Molto bello, padre… non ne avevo mai visti di così finemente lavorati.
- Quel pugnale, ragazzo, ha una sua storia. Ed io l’ho conservato, in tutto questo tempo, con l’intenzione di fartene dono quando ci fossimo separati e tu fossi andato a intraprendere una vita tutta tua.
- È bellissimo.
- Ora dimmi, figlio…qual è il nostro motto?
- Eccellere, eccellere ed eccellere.
- E cosa richiede tutto questo?
- Volontà, costanza e applicazione, padre.
- Bene. Tu, Henry, fino a questo momento, mi hai reso sempre orgoglioso di esserti padre. Negli studi non sei stato secondo a nessuno, la tua condotta è stata, nel tempo, disciplinata e rispettosa dei capisaldi del vivere onesto e civile. E ora, dovrai proseguire da solo, in un Paese lontano, e in una scuola che gli dà lustro da secoli, il percorso intrapreso sotto la mia tutela di padre.
Ma prima, vi sono alcune cose che devi sapere, e ricade su di me l’onere di parlartene in franchezza e senza veli… a costo di essere un po’ brutale.
Quando tu sei nato, Henry, tua madre ebbe un parto gemellare, e purtroppo il tuo gemello morì durante il travaglio. Fu un evento drammatico e inatteso, io e tua madre eravamo in India, e tu sai che i miei doveri di ambasciatore mi hanno spesso tenuto lontano da casa e costretto a compiere spostamenti frequenti. Al tempo, avevamo con noi un nostro amico dottore specializzato in chirurgia, sul quale avremmo fatto affidamento per le dovute cure e la maietuica necessaria al parto. Nel paesello dove stanziavamo, avevamo perfino approntato una stanza in buone condizioni igieniche e con mezzi e strumenti sufficienti per tutte le evenienze del caso.
Purtroppo, il parto, ebbe luogo durante uno spostamento inatteso e senza la presenza del dottore nostro amico: dovetti assistere tua madre io stesso, con mezzi di fortuna e in maniera del tutto inadeguata a garantirne la riuscita e a salvare la vita del tuo fratello gemello.
Il coltello che hai davanti, è la lama che ho usato allora per recidere il tuo cordone ombelicale… Sia, adesso, pegno del mio amore di padre e simbolo del tuo venturo e progressivo affrancarti dalla famiglia e dalla mia diretta tutela.
- Padre, io…
- Dimmi, Henry.
- È questo terribile evento che ha portato alla pazzia la mamma? È per questo che si tolse la vita?
- Sì, figlio mio. Un mese dopo il parto, rientrammo in Inghilterra. Tua madre cadde in uno stato di profonda prostrazione che l’avrebbe poi portata alla depressione e a forme gravi di delirio. Farneticava di fantasie morbose e assurde legate al culto della metempsicosi… Tentò più volte il suicidio, fino a quando, nell’estate di diciotto anni fa, io non feci in tempo a soccorrerla, e riuscì a togliersi la vita. Tu eri così piccolo che non ricorderai niente, ma è giusto che ora tu sappia.
Doppelganger
Mi chiamo Henry Wilson e la mia storia comincia sui banchi di una facoltosa scuola, curvo su materie in cui eccellevo a costo di ore ed ore di impegno meticoloso. Ricordo ancora la mattina in cui il mio doppio, la mia nemesi, fece ingresso nell’ampia aula inondata di traverso dalla luce tetra di un cielo autunnale. Al suo ingresso tutti si alzarono in piedi ed i suoi passi mi parvero risuonare come schianti nell’ambiente spoglio dell’aula. Era straordinariamente simile a me, biondo, di lineamenti sottili e graziosi, carnagione candida, ma i suoi movimenti erano trasfusi di una grazia ammaliatrice quale io forse non conoscevo e certamente non avevo veduto in nessun altro mio compagno. Fu presentato ed un ampio sorriso gli attraversò il volto, non arrivando a stemperare la terribilità del suo sguardo ombroso e come pervaso di febbricitante tensione. Presto si fece amici in gran parte della scolaresca, nessuno sembrava resistergli: tutti quelli che l’avevano conosciuto desideravano frequentarlo ed era come se pendessero dalle sue labbra.
Imparai in fretta ad odiarlo: portava il mio stesso nome, parlava eruditamente come io ero solito fare per distinguermi, i suoi voti erano ottimi, la sua condotta brillante e ineccepibile; per quanto si dicesse fosse stato cacciato da un altro istituto causa una rissa. Presto mi accorsi che tutto ciò in cui costui si distingueva gli richiedeva un impegno minimo, ed era, per così dire, la riuscita nel gioco come nell’attività scolastica, qualcosa di affatto naturale per lui. Ovunque passasse appariva calmo e a suo agio, le ragazze se lo contendevano, ma non una sola voce di scandalo per le sue abitudini libertine e disinvolte. Si era tenuto lontano dalle chiacchiere con la stessa abilità con cui amava dissimulare la sua superiore stazza intellettuale ed il suo indiscutibile fascino, quando era in pubblico, con una buona dose di bonomia. Blandiva le teste calde e aizzava segretamente i miti, praticando quella che Orazio chiamava aurea mediocritas: lontano dalla riva scogliosa, come dal mare aperto in cui soffiano venti infidi, ma sempre esercitando una presa salda su cuori e menti altrui. Dicevano pure che avesse sanissime abitudini, alcuni parlavano di eccessivo igienismo, ma il suo aplomb ed il suo savoir faire mascheravano bene anche di questi certi zeli che qualcuno avrebbe altrimenti potuto sospettare vicini all’idiosincrasia.
Io, per mio conto, ero un eccellente bevitore, inquieto per indole e sia pure brillante nei rapporti con i miei compagni, incredibilmente timido con le ragazze. Una sera, dopo essermi attardato su di un arcano ed eruditissimo testo di mnemotecnica faticosamente compulsandone il contenuto nei locali ormai deserti della biblioteca di scuola, mi ritrovai a passeggiare solo lungo il viale alberato che dalla biblioteca porta dritto al cuore della città. Procedendo con la testa ancora piena d'astrusi calcoli e di concetti astratti ridotti a convergenze geometriche, lo sguardo fisso al cielo stellato, d’un tratto mi parve di sentire dei passi alla mia sinistra. Proseguii certo che si trattasse di autosuggestione, attribuendo la cosa al non aver dormito per diverse notti successive, e subito mi venne fatto riflettere alla ragione del pungolo che mi aveva portato allo stremo dei nervi: era lui. Da quando era entrato nella mia vita, tutte le mie attitudini migliori sembravano svilite, come oro che si fosse impallidito e consunto. Nel frattempo avevo raggiunto la città. Un vento gelido soffiava caparbio da dietro le mie spalle, mi ravviai il cappotto e affrettai l’andatura, ma gli altri passi continuavano, e sembravano quasi sincronici ai miei, così che questi ne risultavano comeamplificati. Mi fermai e ad alta voce chiesi chi mi seguisse. “Nessuno, sventurato, solo un ombra ti segue, la tua ombra!” La voce era risuonata nell’aria con una vaga eco metallica, gelandomi il sangue nelle vene. “Parlami,” dissi: “che vuoi? Rispondi, o come vero che non sei fatto d’ombra ma di carne e sangue…” Mi feci vicino alla scura sagoma con cui avevo inteso parlare, e con orrore mi accorsi che era lo specchio di una vetrina. Capii che il mio omonimo aveva cominciato ad incarnare ai miei occhi, spettri con cui non potevo esimermi dal fare i conti.
Il pomeriggio seguente, durante un pausa dalle lezioni, mi avvicinò una ragazza molto bella, dai modi spigliati ma scevri di malizia, e al contempo squisitamente femminili e aggraziati. Voleva parlarmi in disparte. La seguii giù per la scala antincendio fino al cortiletto sul retro della scuola. Lì mi disse che voleva conoscermi meglio, che mi aveva osservato da lungo tempo e provava del sincero interesse per la mia persona. Rimasi spiazzato: avevo ricevuto già molte di quelle avance, da parte di ragazze delle vicine scuole, ma mai nessuna così nitida e diretta. Ebbene, quella ragazza divenne la mia ancora di salvezza fra i marosi delle mie ossessioni per Wilson. Riusciva a distrarmi sempre, quando ero calato in pensieri ombrosi e non ne aveva mai abbastanza delle mie carezze. Entrammo in una sorta di simbiosi empatica, un sentimento fortissimo che ci legava saldamente. Insieme ci sentivamo entrambi migliorati – io, per certo, una persona più leggera. Persino l’aria sembrava più fresca accanto a lei. Finché non venne il giorno della festa.
Pareva avessi dimenticato il mio doppio e le sue stravaganti abitudini coronate di successi, quando ebbi modo di imbattermi nuovamente nel suo insidioso e odiato sfoggio di attitudini.
L’occasione fu una partita a carte. Erano tutti dei dilettanti ed io li avevo saputi tenere allo scuro della mia abilità di giocatore di poker e dei miei trascorsi da baro. Pareva potessi rimediare una discreta somma, se me li lavoravo tenendomi basso per i primi giri e facendo poi sul serio. Avevo una svariata gamma di trucchi per riscuotere le mie vittorie anche quando la sorte non era dalla mia. Mr. Wilson era già al tavolo da gioco quando arrivai: era stato cooptato nella combriccola e già faceva sfoggio della sua simpatia. La cosa non mi piacque dall’inizio, quel tipo m’innervosiva al parossismo… i suoi tratti così somiglianti ai miei, la sua voce netta e ficcante, così diversa dalla mia…era come vedermi parlare con intenti e voce cambiati…Per un attimo pensai che se riusciva al gioco tanto bene quanto in altri cimenti in cui l’avevo visto all’opera, la serata era già rovinata. Cominciai la prima mano con diffidenza, cercando di non mostrare la tensione che nel frattempo mi si amplificava dentro… Persi più di un giro,cominciava a girarmi male e, nel frattempo, Wilson non faceva altro che ridere e vincere – mi stava logorando i nervi. Decisi di bluffare su una mano consistente cercando di non dare a vedere che ero fuori di me. L’intento era quello di vincere abbastanza da risollevarmi e cominciare a bluffare su somme alte, ma continuavo a sudare copiosamente e mi tremavano sensibilmente le mani. I due sprovveduti si ritirarono, ma Wilson, Wilson continuava a guardarmi negli occhi con quel suo sguardo fermo e indagatore – le pupille, punte di spillo confitte in due pezzi di ghiaccio. Feci per trarre un asso di picche, dal doppio fondo della giacca, ma mi accorsi che il suo sguardo aveva seguito il movimento della mia mano. Gli altri non si erano accorti di niente, mentre Wilson, cominciò a fare no con la testa in un gesto impercettibile di diniego, che voleva essermi di avvertimento. Ritrassi la mano, decise di venire a vedere il mio gioco, fu la rovina. Persi più di quanto avrei potuto pagare, stavo già al piatto di una considerevole cifra. Wilson sogghignò soddisfatto e fece per ritirarsi dal gioco. Fu più di quanto potessi sopportare, l’afferrai per il braccio e gli giurai che gliel’avrei fatta pagare. Quello scrollò abilmente il braccio dalla mia forte presa, si ricompose la giacca e disse: “Hai la stoffa del perdente, ma ancora non hai imparato cosa vuole dire perdere davvero… Lo imparerai presto”. Una finestra si spalancò nella stanza e il cupo mugghiare del vento accompagnò la sua fuoriuscita dalla casa. Rimasi allibito: le sue parole, pronunziate con un voce fredda e monocorde, mi avevano pietrificato. Cosa intendeva, veramente?
Il giorno seguente, Wilson non si presentò a scuola e mi trovai a sperare che gli fosse successo qualcosa di grave – lo odiavo di un odio non comune. Ero nell’ampio giardino della Facoltà. Giocosi raggi di sole bagnavano l’ampia piana erbosa, attraversando di sguincio le nude chiome dei tigli e proiettando sul verde delle intricate lingue d’ombra simili a fasci di motili serpenti… Per un attimo rimasi incantato da quella vista, quando vidi Lisa, la mia ragazza, additarmi da lontano e poi scoppiare in un pianto dirotto. Feci per avvicinarmi, ma scappò via correndo. La sua amica pure, gridandomi dietro parole furibonde che non colsi. Tornato in aula dopo la pausa pranzo, tutti mi guardarono in modo strano, come di sbieco, mormorandosi continuamente all’orecchio. Chiesi spiegazioni, ma nessuno volle rispondermi: mi tenevano in disparte.
Da un mio fidato amico, venni finalmente a sapere l’accaduto. La mia ragazza aveva confidato alla sua migliore amica che io l’avevo brutalizzata. Era pazzesco! Tutto avveniva come un fulmine a ciel sereno: le chiacchiere erano già corse, lei non voleva parlarmi più e minacciava di avvertirne i suoi genitori. Ero isolato, messo ad un angolo. Non avevo fatto niente e, di colpo, il mondo mi crollava attorno. Stavo seduto sulle gradinate del campo da gioco, rimuginando sull’assurdità dell’accaduto il sole che mi esplodeva in faccia e le gambe che tremavano, quando lo vidi ai piedi degli spalti:era vestito di rosso, con un foulard dello stesso colore infilato nella camicia, i capelli scarmigliati dal vento, l’angolo della bocca increspato in un impercettibile sogghigno… “Adesso stai cominciando a imparare, non è vero?” Non risposi. “Stai imparando cosa vuol dire perdere!” Capii in un guizzo:era stato lui, si era spacciato per me ed aveva fatto violenza a Lisa. “Mostro” gridai con tutto il fiato che avevo nei polmoni: ”pagherai anche per questo…Io ti uccido,ti uccido!” Poi avvenne qualcosa di incredibile: Wilson tuffò il volto fra le palme delle mani,e cominciò a singhiozzare. Non avevo mai sentito niente di uguale, emetteva un suono stridulo e grottoso allo stesso tempo. Infine, sembrò calmarsi un po’ e disse: “Tu non sai cosa voglia dire essere condannati a vivere solo per metà! Avrei potuto nascere completo, una persona in se stessa risolta, ma manco di autonomia mi nutro della stima e del rispetto di tutti gli altri e non ne ho mai abbastanza. La mia anima è in frantumi ed ogni mattino, quando mi guardo allo specchio, vedo una teoria di specchi dentro lo specchio ed un solo volto, il mio, condannato ad essere specchio su specchio ,un riflesso di riflessi che non hanno fine. Tu hai ciò che mi manca. Quando ti ho conosciuto eri perfettamente pago della tua vita, soddisfatto, felice, secondo a nessuno; mentre io, sono in fondo uno schiavo, un dispeptico dell’anima, il mio livore non ha limite e nessuna passione – per quanto potente – è capace di saziarmi, ho bisogno di emozioni sempre nuove e sempre di accresciuta portata…E la meraviglia che suscito negli altri mi è di nutrimento… Ah, ma mai nutrimento fu più volatile e inconsistente! Tu m'invidi perché ho tutto ciò che a te manca, tu mi invidi perché riesco senza sforzo nelle stesse cose che ti richiedono energie mentali e fisiche, ma non sai cosa voglia dire stringere già tutto in pugno e non poter provare, una volta mai, il brivido di una vera conquista”.
Le sue parole, invece di produrre in me una sorta di compassione, accrebbero a dismisura la rabbia che già portavo dentro: lo vedevo come una creatura meschina, avida degli altrui sentimenti perché vuota dentro. Estrassi di tasca il coltello di cui mio padre mi aveva fatto dono, che portavo sempre con me, infilato dentro lo stivaletto, e mi lanciai verso di lui con un impeto disumano. Egli cadde a terra ed io lo pugnalai due volte al fianco. Il coltello penetrò la sua carne, come il burro una lama rovente. Restai cavalcioni sul suo corpo a vederlo ansimare e grugnire di dolore e, di colpo, mi accorsi che di lato al suo corpo c’era una maschera di uno strano materiale elastico che mai avevo visto prima di allora. Corsi con lo sguardo dalla maschera al suo volto e rimasi sbigottito: il suo vero volto era in tutto uguale al mio, non soltanto simile, come aveva voluto spacciarlo fino ad allora. Vedere la sua agonia era come vedere la mia. Un sentimento di orrore misto a pena, mi straziò dentro. Poi, prima di spirare, pronunzio queste parole: “Tu hai vinto” mi disse “ed io cedo. Ma tu pure, da questo momento, sei morto – Sei morto al Mondo, al Cielo, alla Speranza! In me tu esistevi – e ora, nella mia morte, in questa mia immagine che è la tua, guarda come hai definitivamente assassinato te stesso.”Fuggii via e mentre correvo le lacrime scendevano calde sulle mie guance; avevo segretamente desiderato essere come lui e lui voleva qualcosa di me che non poteva avere. Schiavo, si era detto. Ma se lui, schiavo, era stato degli altri: dell’altrui stima e ammirazione… io, schiavo, ero condannato a rimanere di me stesso. Per sempre.
“Doppelganger” vuole essere un omaggio al genio di Edgar Allan Poe.
mamma mia... che storia... ma dimmi un po' ma dove la trovi tutta questa fantasia e tutta questa terminologia? 🙂 bravo...
Ti ringrazio per i tuoi toni encomiastici,ma sai,amando la lettura,ho qualche carta buona da giocare
Ti faccio i miei più sentiti complimenti.Ho letto il racconto vivendolo fino in fondo e solo i veri scrittori riescono a darmi certe emozioni,in più l'argomento è tra i miei preferiti.Un applauso ci sta tutto! P.S. Henry era un vero vampiro psichico,descritto alla perfezione...i lineamenti mi ricordano molto York protagonista de "Il battello del delirio" di Martin.