Nel portare avanti quella messa in scena, Marta, per la prima volta si chiese se stava facendo la cosa giusta.

Una sensazione di disagio si impossessò di lei. Il piede sinistro fermo a mezz’aria per una frazione di secondo. Non aveva voglia di raggiungerli. Trovava insensato il loro modo di considerarsi ancora una famiglia nonostante tutto. No, non lo erano. Stavano lì perché erano costretti. Lo sapevano tutti e a tutti andava bene così.

Estranei per trecentosessantaquattro giorni l’anno. Ognuno a casa sua, ognuno a vivere come riteneva opportuno. Stavano ben attenti a non incontrarsi quando andavano a trovare il padre per evitare sterili discussioni e messe a confronto di vite spese male in un modo o nell’altro, seguendo punti di vista diversi e contraddittori.

Tranne il 2 agosto. Tranne oggi.

Aveva appena parcheggiato la macchina nel grande parcheggio del cimitero limitrofo alla grande città. La città dei morti come l’aveva ribattezzata.

Che se non seguivi attentamente le indicazioni rischiavi di perderti tu e pure il morto che volevi andare a salutare.

Anche sulle modalità del funerale avevano discusso.

Lei, il padre, il fratello, la sorella. Chi la voleva cremata, chi la voleva messa sotto terra, chi in uno dei tanti loculi, meglio se alto che costava meno. Di quello la madre non si era preoccupata di lasciare direttive.

Alla fine aveva vinto il padre. In fondo era lui che l’aveva sopportata per oltre quarant’anni. Ed era lui che pagava tutto, forse per pulirsi l’anima di tutte le malefatte che le aveva fatto.

Niente cremazione. Quinta fila, ultimo piano. Duemila euro e la paura era passata.

Doveva percorrere circa trecento metri prima di raggiungere i suoi parenti. Già se li immaginava ognuno con il proprio mazzo di fiori, con le lacrime pronte per mettere in mostra un dolore che non c’era più o forse non c’era mai stato.

Voglia che il tempo passasse in fretta per accaparrarsi ognuno la propria fetta di torta, chiudere la farsa una volta per tutte.

Sua sorella vestita di sicuro con il tailleur scuro nonostante il caldo. Scarpe con tacco dodici. Mazzo di rose bianche.

Suo fratello casual, sbarbato con canotta scura per mantenere le apparenze che mettevano in risalto i muscoli che sopperivano al poco cervello di cui disponeva. Non ne aveva mai avuto molto e i metabolizzanti che usava per pomparsi certo non lo avevano aiutato. Erano quattro anni che si presentava con un mazzo striminzito, il più economico probabilmente, di quelli che trovava già pronti dal fioraio.

Suo padre che si nascondeva dietro occhiali da sole e una camicia a mezze maniche con le consuete macchie che non andavano via o di cui forse non gliene fregava niente. Era certa che lo avrebbe trovato in bermuda che stonavano con la camicia e infradito che mettevano in risalto piedi neri e unghie lunghe. Non si preoccupava nemmeno delle apparenze. Non se ne era mai preoccupato. Lui i fiori non li aveva mai portati.

Rimase ferma lì al parcheggio. Tra le mani il mazzo di fiori che aveva colto nel suo giardino: gerbere, rose gialle, rosse, bianche e rosa. Un mazzo semplice, legato con un nastro di raso rosso.

Era certa che gli altri fossero già dentro e immaginava la sorella muoversi sui suoi tacchi dodici impaziente, mentre guardava l’orologio ogni due minuti sperando che il tutto potesse risolversi il prima possibile.

Il fratello invece era lì a fare le sue battute di spirito che in famiglia non aveva mai capito nessuno.

Il padre forse era già ubriaco. Di solito la mattina prediligeva la sambuca e lei non poteva soffrirne l’alito. Meglio quando si dava al fernet, ma il fernet  arrivava dopo i pasti e in inverno che lo aiutava a digerire. Se ne stava in silenzio, gli occhi lucidi per il bere, ma ci stavano bene di fronte ad una tomba, quinta fila, quarto piano.

Si rigirò il mazzo di fiori fra le mani, poi come scottasse lo lasciò cadere a terra. Nemmeno lo guardò e se ne tornò a passo svelto alla macchina prima che divenisse troppo calda in questa giornata d’agosto torrida dove non c’era nemmeno un filo d’aria a muovere le foglie degli alberi.

Sua madre si era fatta beffa di loro anche per scegliere il giorno in cui morire. E non solo. Irritante anche dopo, quando di lei non rimanevano altro che vermi a mangiarle le carni putride. Nessuno si sarebbe aspettato che avrebbe fatto testamento. Eppure a ripensarci ora, a distanza di quattro anni, si rendeva conto che era da aspettarselo. Sua madre sapeva come continuare a muovere i fili anche una volta passata a miglior vita. Era stato il suo passatempo preferito in vita e continuava ad esserlo da morta.

Chiedo solo che la famiglia continui a vedersi una volta l’anno davanti alla mia tomba per sei anni dopo la mia morte per poter accedere all’eredità che consta di un libretto di risparmi di centocinquantamila euro e della casa di montagna in cui sono nata e cresciuta del valore approssimativo di ottantamila euro. Chi di loro, per motivi ingiustificabili, dovesse mancare all’appuntamento, verrà diseredato senza alcuna possibilità di rivalsa. Come prova della presenza di tutti e quattro, chiedo che venga scattata una foto in cui tutti sorridono riportante la data e che venga firmato un foglio di presenza di tutti i presenti.

Marta ingranò la retromarcia e partì sgommando. Con le ruote passò sopra il mazzo di fiori che si sparsero sull’asfalto incandescente. Prese a ridere come non aveva mai fatto. Per la prima volta, in trentasei anni che era al mondo, smise di essere il burattino e si sentì padrona delle proprie scelte.

Maria Musitano
Maria Musitano
Ritrovai il mio cuore nascosto sotto un cespuglio.

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2 Commenti

  1. brava Mariella davvero un bel racconto, scritto benissimo... l'ho letto senza riprendere fiato quasi!

  2. @Karen Lojelo
    Grazie, sì mi sembra un buon racconto anche se poi sai bene come sono fatta e magari fra qualche mese rileggendolo lo troverò meno interessante, magari anche un po' insulso. Mi chiedo se è solo un mio problema o se tutti gli scrittori (o aspiranti tali) quando si trovano a relazionarsi con i propri scritti vivano le stesse emozioni altalenanti di amore e odio.


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