Mancava poco all’ora di cena, avevo un buco nello stomaco e lo percepivo aspro mentre stringevo le mani al suo collo. Guardai la bocca stirarsi in un ghigno, la lingua gonfia, un filo di saliva che penzolava dal labbro superiore. Attraverso le labbra socchiuse spiccava una dentatura regolare e bianca, eccetto il canino sinistro che risultava essere più scuro, pensai fosse devitalizzato, un amico dentista mi aveva spiegato che il dente cambiava colore quando moriva. Allentai la presa e mi venne voglia di baciarlo, un automatismo, un istinto primordiale, annientare la solitudine e appoggiare le labbra alle sue. Spalancò gli occhi, forse pensò che avessi cambiato idea. Gli ritornò il colore, cambiò lo sguardo, restai commossa da quella tenerezza improvvisa, gli sorrisi e ricominciai a stringere. Spalancò la bocca in un urlo costretto in gola dalle mie dita sulla trachea, cercò di ribellarsi all’ineluttabilità del destino, a quella bizzarra conclusione del nostro incontro d’amore.
Avevo vuotato una boccetta di sonnifero nella bottiglia del vino per neutralizzare la sua forza. L’odore dell’alito era acidulo e ricordava la marmellata cotogna che preparava mio padre quando ero bambina, un sentore zuccherino nascosto dai succhi della frutta, il tutto mescolato in un effluvio particolare che mi tornò in mente a poche spanne da quella bocca aperta.
Adoravo mio padre, era bello, alto, aveva gli occhi fondi come la notte e un paio di baffi scuri. Militare in carriera, lo guardavo da lontano e restavo in attesa di un suo cenno di approvazione, una carezza, un bacio che non arrivava. E mai lo chiesi, pensando di non meritarlo, semplicemente accettai quel suo essermi distante, quell’avermi messo al mondo e poi lasciata in balia delle mie paure. Era un precettore severo, tutto pudore e rigore. Un giorno lo spiai, nascosta nell’armadio in camera, entrò con mia madre e si gettarono insieme sul letto, nudi e avvinghiati. Da dentro arrivò l’odore dell’amplesso, il suono lascivo dei loro gemiti. Infilai le dita nelle orecchie per non sentire, trattenni il respiro fino a perdere i sensi e da quel giorno cominciai a odiare mio madre, detestai quel concedere a mio padre il permesso di entrare nella stessa porta dalla quale io ero uscita, mescolando il loro odore e creandone uno così volgare.
Un gemito interruppe il mio pensiero, lo stesso suono che uscì dalla bocca di mio padre quel pomeriggio di tanti anni fa. Il sesso è così simile alla morte, eppure uno si oppone all’altro. L’uomo che avevo tra le mani gemeva allo stesso modo, la fronte madida di sudore, gli occhi sbarrati. Cercava di parlare, forse voleva dirmi che aveva capito la lezione, che non era come tutte gli altri uomini e mai mi avrebbe abbandonato.
Bugiardo.
Eppure quel pensiero ronzò nella mia testa e m’importunò a tal punto che per un attimo accarezzai l’idea di non continuare, forse a causa del coinvolgimento emotivo che la nostra relazione aveva provocato, o forse perché quello che provavo per lui superava il desiderio di punirlo. Ma non potevo smettere, non era quello il momento adatto per tornare indietro, così cacciai la tenerezza e continuai più annoiata e risoluta di prima, smisi anche di guardarlo in faccia.
Il mio sguardo scivolò sul ritratto di Papa Giovanni, appeso sopra la cassapanca in salotto. Il vecchio prete mi guardava, la papalina bianca in testa, la mano sollevata per benedire, annoiato anche lui, a modo suo mi consigliava di sbrigarmi perché il tempo era sempre meno. Lo ascoltai, applicando più forza alla mia stretta, affascinata dal pulsare più lento delle carotidi sotto le dita.
Il corpo umano, che macchina meravigliosa. Pensai al muscolo scuro che teneva nel petto e che ancora trovava ragioni per pompare sangue. Cocciuto e orgoglioso come quello di ogni maschio, ma in fondo era la parte migliore, quella che comprende i bisogni del mondo e consola un malanno. Che uomo di cuore pensai, affascinante e sempre pronto all’ascolto. Mi conobbe a teatro durante la rappresentazione del Macbeth di Shakespeare. Sedeva qualche fila davanti a me, nell’intervallo lo vidi alzarsi e uscire per una boccata d’aria. Le solite giravolte del destino, gli andai dietro come un cucciolo ubbidiente, poche parole e il mio sguardo basso che denotava una timidezza accentuata. Avevo smesso di parlare con gli uomini dal giorno che Luigi mi respinse. Ero una ragazzina magra, frequentavo la prima liceo e da quel momento promisi a me stessa che mai più sarei caduta nella trappola di un maschio maledetto. E mantenni la promessa fino al compimento del mio trentesimo anno di vita, fino a quel giorno a teatro. Non so perché ripresi a parlare con uno di loro, ma qualcosa mi suggerì di farlo, un appuntamento fissato dal fato o un semplice colpo di fortuna, non so.
Basta così, Papa Giovanni mi guardò con più severità. Strinsi ancora, e ancora.
Smise di lamentarsi, finalmente.
Per la prima volta mi trovai al cospetto di un morto, parola volgare per definire un corpo che ha smesso di respirare. Non provai nulla, nessun senso di colpa o dispiacere, nessuna gioia o appagamento. Ero un cadavere che ne stringeva un altro, due morti abbracciati e disperati, i nostri occhi fangosi, le mani bianche, che immagine macabra.
Lo lasciai sul tappeto dove il giorno prima avevamo fatto l’amore e mi era tornata in mente la bambina nascosto nell’armadio, mio padre e lui sopra di me con lo stesso sguardo traditore negli occhi, e avevo deciso di ucciderlo. Lo baciai prima di andarmene, mi inginocchiai e poggiai la mia bocca sulla sua, era morbida, finalmente rilassata ora che aveva smesso di lottare.
Chiusi la porta con un doppio giro di chiave. Scesi al bar sotto casa e ordinai un bicchiere di vino bianco e un tramezzino, prosciutto cotto e maionese, quello che prendevo di solito. Osservai un volo di rondini e di nuvole tra i tetti, vidi il campanile della chiesa e pensai a Papa Giovanni, finalmente in pace, anche lui come me.
Sfogliai il quotidiano che avevo trovato sulla seggiola accanto alla mia, nella pagina degli spettacoli annunciavano che mettevano in scena il Macbeth. Le solite giravolte del destino, stirai un sorriso e accesi una sigaretta. Inalai quel fumo, un sentore tabaccoso e gravido.
Nato a Cremona, da allora respiro nebbie fitte, afa padana e pianeggianti sensazioni. Mi esprimo come posso e come so, nello stesso modo che mi è stato concesso da un cinico fato. Scrivo parole convinto che l’espressione sia la magia donata agli esseri umani per potersi elevare e somigliare agli Dei. Non esistono punti fermi nel mio esistere, solo zattere di comprensione in balia di un oceano agitato e onde altissime che conducono, malgrado noi, verso lidi sconosciuti. Per questo credo nella parola espressa come valore supremo; ci credo perché la voglio fortemente mia, la sento scorrere nelle vene più del sangue, possiede un proprio odore inafferrabile ed evoca consapevolezze diverse, la posso toccare con mano, ingoiare e respirare ogni istante. Credo nel “linguaggio dell’inesprimibile”, nelle sensazioni e intuizioni che solo parole non convenzionalmente espresse riescono a palesare realmente.
"Sono l’oscuro lato che nasconde
la genesi più vera di me stesso."
Ho scritto, mio malgrado: "L'Attimo e l'Essenza", "Diario di bordo", "Il passo del gambero", "Suoni", "La ragione degli alberi", "Un celeste divenire". "Destinati a direzioni diverse" è il mio ultimo figlio di carta.
che bello rileggerti qui!