Per salutare Torino

Racconti Marco Fratta

“Gli esseri umani trasformano la realtà”, si ostinava a ripetere il mio professore. Avevo pochi anni. Sedici, se la memoria è dalla mia parte. “Gli esseri umani sognano e poi trasformano tutto. Ora sei adolescente, certe parole ti sembrano lontane. Ma se sarai curioso, un giorno le sentirai tue”.
Diceva così.
Era un tipo brillante.
Chissà che fine ha fatto.

La notte è bollente. È il luglio di un estate anomala, inaffidabile, sorprendente. Ma il clima è incendiario, i muri continuano ad effondere calore fino alle prime luci dell’alba. Ho scelto di trascorrere il sabato sera con due amici indimenticabili. Lei porta al collo una macchina fotografica, di tanto in tanto si diverte a fermare il tempo con le immagini. Lui suona il sassofono, siamo saliti sul palco insieme diverse volte, sempre con lo stesso sorriso. Camminiamo tra le vie di San Salvario con il passo sicuro; ho l’impressione che chi ci incontra stia pensando: “quei tre si sono scelti”.
Questa sera devo salutarli. Ma non vado in ferie, no. Ho sempre odiato andare in ferie in piena estate. Devo salutarli perché ho in tasca un biglietto di sola andata per il nord Europa.
Certe parole ti sembrano lontane, ma un giorno le sentirai tue.

C’è una cosa che nella vita ho dovuto imparare a fare presto: salutare.
Ho detto addio sulla porta di mia madre, quando avevo da poco iniziato a radermi. Ho detto addio sulla porta delle due donne che ho amato. Ho visto amici scomparire, poi ricomparire cambiati. Ho visto i sogni modificarsi sotto l’ombra degli impedimenti che facevano a pugni con la tenacia. Ora devo scegliere una porta per salutare Torino, è ciò che mi suggerisce di fare il torace. La città in cui sono nato sta per diventare un lunghissimo ricordo, incorniciato dall’architettura barocca e dalle tracce sabaude.
È altrove che la mia vita vuole proseguire.
Gli esseri umani sognano e poi trasformano tutto.

Siamo seduti nel dehor di un bar. Qui veniamo spesso, perché il barman è gentile e vende dell’ottima birra Weiss. Lei scatta alcune foto spontanee, sa bene che il tempo è poco. Lui mi parla di musica, di come sarebbe stato bello vedere insieme certi concerti degli anni settanta. “Siamo nati in ritardo” gli rispondo sorridendo. Ma so che sono altri i motivi per i quali ho fretta di andare via, di spostare la mia esistenza da un’altra parte. Ho come l’impressione di essere chiuso in una scatola di pietra. Me ne ero già accorto a Parigi, a Madrid, alle Canarie, a Stoccolma: in quei posti le nuvole correvano di continuo da una parte all’altra, sembrava che respirassero, mentre il cielo sopra la mia casa era sempre grigio e immobile. “È colpa delle montagne che ci circondano” dicevano tutti “il cielo resta fermo per quello”. Eppure io non stavo cercando il colpevole, ma solamente un posto migliore.

La terza birra finisce in un lampo, i sorsi sono accelerati dal caldo torrido. “Cosa facciamo?” chiedo. La mia domanda più che curiosa suona propositiva. I miei compagni se ne accorgono, “quello che vuoi” mi dicono. Stasera ho carta bianca.

Ripenso alle parole del mio professore. Insegnava storia dell’arte, ma lo faceva dialogando. Era carismatico, sapeva scegliere quelle parole che acceleravano il tempo, anche quando la mattinata sembrava così restia a finire. Ricordo che mentre mi parlava io non riuscivo ad immaginare nemmeno una virgola del mio futuro. Quell’anno c’era la guerra in Iraq, grazie alla televisione avevo capito che detestavo la guerra. Ma non sapevo da dove iniziare per costruire la mia pace interiore.

Ad un tratto, travolto dall’eco dei ricordi, vedo illuminarsi un’idea che mi affascina, che rapisce completamente la mia attenzione. Ad entrambi i miei compagni piace pedalare. Spesso si incontrano per fare chilometri insieme sulla bicicletta, su e giù per le strade di Torino. Così colgo l’attimo, e pronuncio le mie parole tutto d’un fiato.
“Prendiamo le vostre bici e andiamo in collina”.
Mi guardano come si guarda un pazzo. Nei loro incontri sulla bici non mi coinvolgono mai, perché anche lo sport è una di quelle cose che ho salutato molto presto.
“Non sei allenato, non ce la farai mai”.
“Questo non è importante. Se non dovessi farcela mi aspetterete all’arrivo. Voglio salutare Torino da lassù”.
Si fissano, complici. Sento di avere tra le mani la mela di Adamo, perchè non possono dirmi di no. Non questa sera.

Trascorrono pochi minuti, e ci ritroviamo nel cortile di lui a prendere due vecchie bici. La terza è altrove, bisogna andare a recuperarla. “Monta qui, sul tubolare” mi dice con una naturalezza incredibile, “a piedi ci metteresti troppo tempo”. Non indugio, mi siedo sul tubo d’acciaio e agguanto la parte interna del manubrio. La sua pedalata è influenzata dall’alcol, la strada sembra il mare forza nove. Ad un tratto, sulle rotaie, rischiamo anche di cadere. Forse le nostre risate si sentiranno fino al Colle della Maddalena.

Presto arriviamo nel cortile di lei, che abita nello stesso quartiere. Finalmente tutti possediamo una bici. La mia è rossa come il fuoco, lucida, e ha il parafango posteriore che continua ad urtare la gomma. Sarà divertente farcela, penso.
“In collina dove?” chiede lei.
“Al Monte dei Cappuccini. Quattro curve e siamo su”.
“Quattro curve in salita…”
“Abbi fede. Faccio quello che posso. Chi arriva primo aspetta. Ok?”
Entrambi annuiscono. Sono carico, potrei vendere le mie energie a peso d’oro.

Si parte. Il Valentino è in pianura, affollato di ragazzi che frequentano i locali del parco. Si procede a rilento, come per abituare le mie gambe ad un qualcosa che proprio non possono aspettarsi. All’altezza del Borgo Medioevale il parafango blocca completamente la mia ruota, dobbiamo fermarci per ripararlo. Nell’aria c’è solo l’estate frizzante, nemmeno l’ombra della sfiducia.
Istintivamente, vittima del momento morto, tiro fuori il tabacco e mi accingo a preparare una sigaretta. I miei compagni mi fulminano con lo sguardo. “Sei pazzo!?”. Mi rendo conto della mossa fuori luogo, forse dettata dallo stato d’animo stralunato che mi ha travolto nell’ultima mezzora, e metto via tutto. Devo pensare solo a pedalare, devo confezionare il mio addio a Torino con tutta la concentrazione di cui sono capace. In fin dei conti le modalità le ho scelte io.

La salita inizia da corso Moncalieri, poco prima della Gran Madre. Affronto la prima rampa con discreta disinvoltura. “Questo è niente” mi dice uno dei due con voce premurosa.
Dal secondo tornante, infatti, la realtà si fa più severa.
Il fiato si ingrossa, inizio a respirare a bocca aperta. L’aria mi graffia la gola, fa cigolare il ritmo del mio respiro. Dannata nicotina, impreco. Ma la vista non molla l’asfalto neanche per un istante, i polpacci spingono i pedali mentre continuo a pensare a quelle parole. Ho avuto la curiosità di sognare, e sto trasformando la realtà. Lo sento. I miei muscoli si inebriano di tenacia.

La resa arriva prima delle ultime due curve. Non c’è verso di spingere ancora. Mi fermo un paio di volte, e ripartire è sempre più difficile. Inizio a trascinare a mano la bici, mentre il respiro somiglia all’asma, pare abbia trovato un equilibrio nella frenesia. Ma non sono deluso. Tutt’altro. Credevo andasse peggio. E invece sono stato curioso fino al punto di stupirmi. Grazie professore.

Lentamente scorgo Torino oltre la staccionata di mattoni da cui si può ammirare il panorama. Il cielo è sereno, la veduta mi restituisce ventisei anni di vita in una sola fotografia. Era di questa completezza che avevo bisogno.
“Rimarremo qui fino alle prime luci dell’alba” dico col fiatone.
I miei compagni sorridono.
Sullo sfondo c’è la città che aspetterà sveglia per carezzare il mio saluto.


Per_salutare_Torino

Marco Fratta
Marco Fratta
Marco Fratta è nato a Torino nel 1987, ma vive e lavora in Irlanda, a Dublino. Scrive romanzi, poesie, racconti e suona il basso elettrico. Ha pubblicato il romanzo "La scatola nera" (La Riflessione 2007) e le raccolte di poesie "Il ronzio degli insonni (Lulu 2009) e "Zitti nel frastuono" (Amazon 2013). Il romanzo d’esordio è stato pubblicato anche in lingua francese in formato ebook (La Boîte noire, Abelbooks 2012, traduzione a cura di Marie-Bernadette Giraud). Con il romanzo inedito "Il pittore di parole" ha vinto il Premio Faraexcelsior 2012, ottenendo la pubblicazione per conto di Fara Editore. Nel 2009, con la collaborazione degli attori Alan Mauro Vai e Vincenzo Di Federico, ha creato il "Marco Fratta Reading Project", forse il primo reading italiano su sottofondi di basso solo. Alcune parti dello show si possono trovare su Youtube e Vimeo. Da sempre appassionato di Rock Progressive, ha suonato con promettenti formazioni di rock d’avanguardia, ma ha anche collaborato con alcuni cantautori tra cui Mezzafemmina (al secolo Gianluca Conte). Per lui ha arrangiato e suonato le parti di basso del disco "Storie a bassa audience" prodotto da Gigi Giancursi & Perturbazione.

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