Occhio per occhio

Dovevo saperlo che era una giornata no: prima la telefonata a casa, praticamente all’alba, per avvertirmi di recarmi in via dei Peschi 36, quartiere Zaist, per un omicidio; poi, uscita in strada, il vistoso sfregio sulla Yaris nuova. Avevo morbosamente accompagnato la riga lasciata dalla chiave a partire dal cofano fino al portabagagli, sentendo sotto le dita le briciole della vernice grigia che si sfaldava ancora. Sentivo la rabbia, la furia sorda crescermi dentro, soprattutto perché intuivo l’identità del responsabile. Avrei volentieri applicato la legge del taglione a quel vandalo: una pietrata sul parabrezza di quelle che lasciano solo una ragnatela di cristalli finissimi, una serie di graffiti incisi nel rosso sangue della carrozzeria della sua macchina, un barattolo di vernice piovuto direttamente sul cofano, una bella bozza nelle quattro portiere...

La mia povera macchina non aveva neppure un mese. Era inevitabile, mi era sempre successo con le auto nuove, prestate o affittate, qualcosa capitava e le ammaccavo, ma almeno ero stata io e anche in questo caso avrei dovuto essere io a dare il primo colpo alla carrozzeria intonsa dell’utilitaria. O forse no.

Ora potevo liberamente prendermela con lui: ancora quello stronzo del terzo piano, pensai, ma cosa gli ho fatto di male?! La tentazione di rompergli le scatole suonando insistentemente il campanello era forte, ma mi trattenni: facevo sempre parte delle forze dell’ordine.

Avevo dunque preso, rassegnata, il mezzo ormai rovinato e mi ero recata in via dei Peschi 36, parcheggiando davanti a un immobile anni ’70 di colore arancio pesca - proprio in tema. Era l’ultimo palazzo di una strada che confinava con l’aperta campagna; un immobile che seppur proletario aveva una sua pulita dignità. La morta viveva lì, con il fratello, al terzo piano, senza ascensore. Dopo aver suonato ripetutamente il campanello del suo appartamento e constatato che il fratello non c’era, con l’agente Tindaro, che si stava ancora rassettando le briciole del cornetto trangugiato al bar accanto, ci rivolgemmo all’altra porta del pianerottolo. Erano le sette del mattino, pur essendo tutti lavoratori, qualcuno doveva pur essere ancora a casa intento a fare colazione. La porta, infatti, si aprì. Il viso assonnato che si intravide dallo spiraglio apparteneva a tale Daniela Morelli, collega e miglior amica della vittima.

La Morelli pareva la classica zitella per bene, di quelle che anche a trent’anni sembrano vecchie. Unico vezzo erano i capelli sciolti sulle spalle, neri, e lunghi fino alla vita. E leggermente unti. Era sconvolta e continuò ad offrirci un caffé che avevamo rifiutato appena entrati.

Fatima aveva frequentato per diverso tempo un certo Mario, un mascalzone, e un terrone, disse la Morelli con un tono belante, e un “Oh mi scusi” rivolto all’agente di Messina. Mario era uno che raccontava di avere una piccola falegnameria ben avviata, ma che poi si vedeva al bar fino a notte fonda. “Lo dicevano tutti. Gliel’ho detto anch’io che non valeva niente. L’ha presentata in casa, aveva detto che la voleva sposare. Ma poi l’ha piantata per la prima ‘puttana’ di passaggio. Un classico.” La Morelli se ne stava  seduta composta sul divano con le mani in grembo, scuoteva leggermente il capo e raccontava. “Fatima ci ha fatto una malattia.”

“Non ha avuto problemi con la comunità marocchina? Fidanzata con un italiano? Ritorsioni?” Chiesi alla Morelli.

“Ma no. Fatima e il fratello sono qui da 15 anni, sono orfani, la comunità marocchina non sanno neppure cosa sia, sono molto integrati, badano l’uno all’altro e Mohamed è un ragazzo moderno. Torna fra un’ora, dal turno di notte. Povero Mohamed.” E si prese la testa tra le mani.

In macchina l’agente Tindaro mi espresse la sua opinione: “questa è una storia passionale, ma c’è anche la premeditazione.” Sembrava sempre dormire dietro la maschera di cuoio scuro che era la sua faccia e invece pensava, pensava. “Omicidio premeditato, ma con passione eh?” gli feci per prenderlo un po’ in giro. “Non è l’aggressione di un balordo.” Chiarì lui risentito.

La ragazza era stata pugnalata ripetutamente, ma non violentata, e non mancava nulla nella borsetta.

“Sì lo credo anch’io.” – feci più seria - “Andiamo a sentire questo Mario”...

 

Analisa Casali
Analisa, con una enne sola (mettiamo subito le cose in chiaro). Ho scritto libri per bambini e anche no. Giornalista pubblicista ho scritto di viaggi e li ho anche fatti, ho scritto di animali e li ho anche avuti... Oggi ho un gatto, vivo a Cremona e viaggio scrivendo, mentre immagino di scrivere viaggiando...

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4 Commenti

    • Analisa
      lei ci tiene al nome esatto

  1. ehi, mi è partito il commento... non avevo ancora finito.
    E' intrigante, scritto bene, voglio il seguito 🙂
    benarrivata

  2. ci sono entrata dentro fin dalla prima riga... però non basta, voglio sapere.... leggere ancora


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