Palme da cocco

Racconti MariC

Mi sveglio di soprassalto a un rumore sordo contro i vetri della portafinestra.
Tiro la cordicella della tenda di bambù giusto in tempo per vedere un grosso corvo volare via.
«Ma com'è che continuano a sbattere contro i vetri?» chiedo a John quando scendo a fare colazione.
«Vedono riflesso un rivale e così lo attaccano» mi risponde.

L'assalto si ripete più volte durante la giornata e su diversi fronti: contro i vetri della veranda che dà sul mare e contro quelli sul retro.
Sono uccellacci neri, grossi e col becco spesso. Non stanno mai zitti e sporcano dappertutto. E poi sono tanti. Si mettono in fila sui rami o sul filo spinato del muro di cinta e mi guardano indisponenti.

Vista la mia insofferenza, il giorno dopo John arriva con una carabina e si mette in posizione sulla terrazza: gambe larghe, calcio contro la spalla, braccio teso a sostegno della canna e dito sul grilletto.
Se si ammazza un corvo e lo si appende a un ramo lasciandolo lì a marcire, presto arrivano tutti gli altri per urlare il loro dolore. Si disperano per un giorno, forse due, e poi scompaiono. Ma ritornano. Allora si uccide un altro corvo, lo si appende a un ramo...
John spara, i corvi si alzano in volo tutti assieme e corrono, corrono nel cielo e si disperdono. Nessuno di loro cade sulla terra soffice appena dissodata.

La sera sono di nuovo nel giardino a becchettare gli avanzi di cibo lasciati dagli operai. Frugano fra la plastica, le cartacce unte e le foglie di banano.
«Bisogna dire agli uomini di smetterla di buttare in giro i rifiuti e gli avanzi di cibo. Devi dirglielo John.»
Mi irrita da morire il loro modo di essere trasandati.
Se ne fregano. Questa è la verità.
Ieri c'era una scimmia sul muro di cinta dove non hanno ancora messo il filo spinato. Si guardava in giro curiosa mentre passeggiava avanti e indietro bilanciandosi sulle quattro zampe. Quando le ho urlato Sciò! mi ha guardato stranita, ma non se ne è andata. Non appena ho voltato le spalle un operaio le ha dato della frutta da mangiare.
L'avrei ucciso.

Inizio a strappare le erbacce intorno alla palma da cocco numero 146.
La prima cosa che mi ha detto John quando è venuto a prendermi all'aeroporto è stata: «Quest'anno ho numerato le palme della nostra terra. Sono 163!»
L'ha chiamata da subito la nostra terra. Da quando l'ho comprata.
«Le ho numerate partendo da quelle di fronte al mare.»
Appena imboccato il sentiero che conduce alla casa vedo sulla corteccia di una palma il numero 260.
«Come fa a essere la 260 se sono solo 163?» chiedo.
Mi parla come si fa con qualcuno che non vuole capire: «Sono partito da 101. Così sembrano di più».
Quindi in realtà sto strappando le erbacce intorno alla palma 46.

Per ora i corvi mi stanno alla larga. Hanno capito che non li sopporto. Finché si tengono lontani sto tranquilla, ma li controllo con la coda dell'occhio.
Ho sempre temuto gli uccelli e, con gli anni, il brivido che mette in allerta il corpo per prepararlo alla fuga si è fatto più intenso.
Le piume mi fanno schifo. Quei peletti rigidi e scuri allineati fitti sulla cannuccia centrale mi disgustano. Ma mi fa ancora più senso il movimento breve e ritmato del collo e quel piccolo cranio con gli occhietti lucidi, stupidi all'inverosimile.
Raccolgo le erbacce strappate e le butto intorno al tronco dei banani. Sono un ottimo concime assieme allo sterco di vacca. Lo sterco di vacca e il sale fanno bene alle palme da cocco.
Sto imparando molte cose.

Gli altoparlanti del tempio indù in cima alla scogliera hanno incominciato a gridare i mantra del giorno di festa. I corvi sembrano infastiditi e - Shiva li benedica - si spostano su una pianta più lontana.
Il cellulare si è messo a vibrare nella tasca dei pantaloni. Da tempo John usa il telefono per evitare di urlare il mio nome da una stanza all'altra o di rincorrermi per il giardino.

Lo trovo in bagno con un lungo filo di ferro in mano . Mi mostra con un cenno del capo un cobra steso sul pavimento. Si era infilato in una tubatura esterna e aveva cercato di uscire dalla scarico della doccia. Rimossa la griglia di chiusura, John l'ha trafitto, l'ha tirato fuori e gli ha schiacciato la testa.
Mi viene voglia di accarezzare quel povero corpo contorto e disarticolato abbandonato sulle piastrelle. Il monsone gli ha allagato la tana e lui se ne è cercata un'altra apparentemente sicura.

Tempo fa avevo letto di un vecchio indiano che ogni sera posava un piattino colmo di latte nel suo giardino, vicino alla tana di un cobra. Il mattino dopo lo trovava sempre vuoto. I famigliari avevano cercato di farlo smettere, ma lui non voleva sentire ragioni. Un giorno l'uomo fu ricoverato in ospedale e pregò i figli di occuparsi del serpente. Quando ritornò a casa mise il piattino col latte al solito posto, ma il mattino seguente lo trovò intatto. Si sentì tradito dai figli come sapeva che il cobra si era sentito tradito da lui.
Io sono come quel vecchio: un cobra si è affidato a me e non ho saputo proteggerlo.

Verso sera mi siedo all'aperto a leggere il giornale. Volto le spalle al mare facendogli scudo col corpo per sfogliarlo. Ma il vento ha mille dita dispettose che fanno di tutto per portarselo via. Lo ripiego rassegnata, chiudo gli occhi e mi abbandono al battito ritmato delle onde sulla battigia.
Il soffio dell'aria è caldo e umido e toglie il respiro, ma io rabbrividisco. E so perché.

Apro gli occhi e alzo lo sguardo verso le lunghe foglie sfrangiate delle palme.
Sono 7, tutti in fila, e mi guardano, rinfrancati dalla mia immobilità e dal mio silenzio. Neri e perfidi.

Ora lo so.
Li ucciderò tutti, a uno a uno, e li appenderò a quella palma.
Poi ucciderò tutti quelli che accorreranno a urlare il loro dolore e li appenderò a un'altra palma.
E poi ucciderò tutti quelli che aggiungeranno dolore al dolore e li appenderò.
Palma dopo palma.
Ucciderò e appenderò finché le 163 palme da cocco saranno tutte in lutto in memoria di un cobra che non ho saputo salvare.

MariC
MariC
Nessuno capisce fino in fondo i propri abili sotterfugi, messi in opera per evitare l'inquietante ombra della conoscenza di sé. (J. Conrad)

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5 Commenti

  1. MariC mi ammali con i tuoi racconti. In questa storia sono riuscita ad odiare e poi amare e ancora odiare per infine amare la protagonista. L'ho odiata quanto lei odia i corvi e mi ha fatto schifo con i suoi pensieri come a lei fanno schifo le piume di quegli stupidi uccelli. Poi mi ha intenerito quando strappava erbacce intorno alla palma e quando era triste per l'uccisione del cobra.
    Comunque ogni volta mi lasci senza parole...

  2. Mariella, tu sei una persona troppo gentile. Mi riscaldi il cuore. Grazie.

    • MariC scrivo quello che mi trasmetti tu leggendoti. Grazie a te.
      p.s. credo semplicemente che abbiamo affinità.

  3. Racconto .... .................... particolare! ... strani sentimenti mescolati come in una macedonia .... all'inizio ho provato antipatia per quei corvi ! poi mi hanno fatto tenerezza e ho odiato le palme ..... poi mi ha fatto pena il cobra ucciso .. e successivamente l'ho odiato .... forse è una naturale legge di sopravvivenza che spinge a certe cose ... penso di essere più adatta a vivere in città! ....
    Mari ti faccio i miei complimenti per il tuo strepitoso racconto :-)))

  4. grazie grazie grazie 🙂


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