Un sabato sera qualunque, identico ai precedenti, le stesse vuote illusioni, per darci una speranza, un giorno sereno.
Tranquillo e luminoso, ogni cosa pacifica e scintillante, fantastico per chi perde, un momento purtroppo indimenticabile.

Il cielo all’imbrunire era profondo come il mare, aria viva di ghiaccio a baciare i mortali, il più caldo fra gli amori e alberi deserti salutavano, osservavano arrivi e partenze, capivano il dolore più grande, un uomo che sta e sa di morire, immaginare sogni deliziosi nel cuor della notte.

Illusione, il malanno che ci derubò della vita eterna.
Siamo un niente in questo spazio infinito, limitante, senza causa.
Un corpo rumoroso, sofferente, rassicurante, punto di riferimento a perdere.
Cadere, salire, per sempre fra le spire della serpe, spazio, tempo, e l’accezione che rilancia: caos.

Nessuno sa dell’asteroide, atomo invisibile, fredda desolazione materica. Ed era un solo giorno.
Serata umida di nebbia, Melina vestita di nero uscì di casa, ben ordinata, famiglia stimata e premurosa.

Non le fregava un cazzo di vedere quel menefreghista di suo padre, o mamma ipocrisia.
Pochi amici, le piaceva attraversare le vie deserte della città, sostare vicino alle fabbriche al buio, cumuli di cemento, nubi di gas. Apatia cronica. Si concedeva, per natura o se il cane mordeva, di soddisfare i propri istinti sessuali.

Un paese per sepolcro. Voleva andare via per essere sconosciuta, pianure, mari, senza monti, palazzi, un cielo spento disabitato dal sole, e una nottata trasparente.

Camminare e non toccare il suolo, gente innominata, privata di sembianze e linguaggio.
A guardare i treni passare, radi, per ore dilatate. Quando suonava il campanello della stazione, le si gelava il sangue nelle vene, uno schianto di nervi percorreva le gambe e scendeva fino alle rotaie tese.

Una sera di merda, gli altri erano altrove.
Si diresse al locale possibile, sotto una pioggia battente, sferzante di lamette a mezzo novembre, il nauseante sfiato dei tombini, l’acqua che teneva il passo scivolando dalle fessure di vecchi muri ammuffiti, le mormorava all’orecchio indecifrabili brontolii, sommesso salmodiare d’anime morte.

Penetrò infradiciata, chiese un tavolo e sedette, assediata dalla volgarità delle risate sguaiate, grida d’ubriachi, azzurro di sigarette in strane forme mobili nei riflessi di penombra.

Dalle casse un canto monotono, correnti post e qualcosa: “…cosa resta, calpestato e credere, falsità, fato immutabile, sfiorato dalla storia, tumore spirituale, inquietudine a incontrare maschere conosciute, schivare caviglie in fuga, cosa resta, una larva nella palpebra, stiletto fra le coste, speculazione del degrado, paradiso indifferente…”

Melina ordinò una bottiglia di vino rosso, per celebrare la mestizia, per sfumare il plasma.
Sversò il primo e avvolse il tabacco,  sguardo impenetrabile sul pavimento a scacchi, analizzando fughe di piastrelle, crepe e cedimenti.

Pensieri come escoriazioni infette, le tormentavano la spugna, afflizioni spartivano il basso ventre, si presentò il secondo litro.

Stava bene. Fase di serena alterazione.
Silenzio. Nero.
Dondolava dolcemente, la mano di sua madre si stagliava filiforme sul bordo della culla.

Una nenia indefinita, epoca di piacere estinto.
Fluttuante su un vuoto immondo, inventava sillogismi, parole, estremismi, accoppiava voci e rumori, li annientava e ne udiva il nulla.

Volava con lo stormo, un proiettile indirizzato alla divinità meschina, si schiantava su porte serrate, errante su altipiani, macerie d’ingranaggi, lanciava muto urlo di follia, sulle labbra colava il rossetto e un accenno di sorriso.

Riaccese lentamente gli specchi sul conto, la cameriera impaziente di rassettare la stanza ormai deserta.
Luce forte, stordita e barcollante, ombre sfocate, fastidio, uno sciame di mosche nella scatola cranica, fino all’uscita, inciampò sul gradino imprecando, cella tetra, a tratti piacevole.
Rovinò fra le sue braccia, una trappola sotto l’insegna consumata.

Navigarono fino ai giardini, sulla bassa marea della foschia, le chiome inconsistenti di piante fittizie, a ridosso del monumento cubico.
Le modulazioni labiali suggerivano desideri inespressi e inderogabili –

( 19/03/1996 – Riveduta )

Marco Gasperini
Non sono io, scimmia ammaestrata, il solito disperato buffone, spirito invernale sconfitto dall’enigmatica primavera del cuore in codice - Se la notte incombe, dammi l’illusione di un puerile mattino.

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7 Commenti

  1. Stato alterato del caso, inconscio sorseggiato, nel ricordo che trapassa. L'isolamento per un momento può attendere tra la foschia, lasciando tra le cime all'immaginazione...

    • Notte troppo giovane, di troppi anni fa...gli atteggiamenti non si estinguono mai, col tempo si sintetizzano -

  2. Bel testo, mi ha colpito, mi piace...padre menefreghista, mamma ipocrisia...finalmente "contro" l'iperimmorale retorica familista...

    • Ad essere sincero, la parte che ha suscitato il tuo entusiasmo è in linea di massima irruenza d'uno spirito adolescenziale, piuttosto che una protesta diretta...ti ringrazio

  3. mi ha sorpreso il tuo brano. Forte, anticonformista, lontano dal perbenismo.

    • Questo brano arrivò alle semifinali di un concorso all'epoca (ero uno studente delle superiori) fra E.Romagna, Umbria e Marche...come lo ri-propongo qui risulta parecchio tagliato e (forse) migliorato, in generale il testo era parecchio più crudo e, da un certo punto di vista, ingenuo...
      Grazie Karen e Mariella -


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