"Secondo lei posso riconoscere quelli come me?"
"Sì, è possibile, ma non mi sento di darle questa certezza e poi a che servirebbe?"
"A nulla, forse. Magari ho solo bisogno di luce in questo buco nero."
Quale risposta volessi da lui non lo sapevo nemmeno io. Uscita dallo studio, mi incamminai verso il mare come facevo ogni venerdì dopo la terapia.
Alcune volte avvertivo la testa prendere il volo a causa della fame, così mi ritrovavo a strisciare i piedi per riattaccarmi alla terra. Sarei potuta tornare a casa e mangiare, ma avevo voglia di gente, di facce e soprattutto di mare.
Se ero imbevuta di tristezza, evitavo di guardare le persone nei bar, nelle pasticcerie o sulle panchine a sorseggiare Coca Cola e trangugiare fugaci tranci di pizza. Annaspavo nella certezza che tutto il mondo fosse uscito in strada solo per mangiarmi in faccia, per ricontare gli anni passati dall'ultima cena con le amiche e per togliermi il respiro mentre rincorrevo quella normalità che sembrava così incompatibile con me.
Non trovavo più nei miei ricordi il sapore di un gelato sciolto che moriva dolcemente durante una passeggiata. Erano solo immagini vissute in un quando molto molto molto lontano dal presente che avevo allenato al sapore di niente. Tuttavia, si presentavano raramente i momenti in cui guardare gli altri mangiare fuori casa mi strizzava il cuore. Il tempo lo aveva seccato abbastanza da non farne uscire più una goccia di invidia o di rammarico. E per il momento era quello il mio meglio.
Il lungo mare sembrava governato da punti ristoro e bar, l'odore di cibo combatteva contro il dolce e ingenuo profumo di mare che tentava di riprendersi almeno la spiaggia. Era un profumo da difendere, ma avevo così tanta fame da cedere al sogno di sedermi e mangiare qualcosa ignorando le lotte del mare.
E mentre mi saziavo con l'aria, lo vidi.
Vidi un ragazzo di un bianco solare e due occhi sbranati dal buio.
Era seduto al tavolo di uno dei tanti chioschi, in mezzo ad un anello di altri ragazzi che mangiavano e bevevano e facevano riassunti della giornata. Lui non parlava, aveva le mani abbandonate sulle gambe e la testa dispersa in qualche punto di questa dimensione, ma non lì, non in quel chiosco.
La sua porzione di tavolo era deserta. Sembrava un terreno infertile per piatti e bicchieri. Un vuoto voluto, conosciuto, diventato per me un' istituzione, quasi un cliché delle mie uscite con gli amici, quindi terribilmente inequivocabile.
Mi appoggiai su un muretto, alle spalle il mare sorreggeva tutta la mia debolezza.
Facendo finta di aspettare qualcuno, cominciai ad osservare il ragazzo dalla bocca infinita e le palpebre calanti, gli avrei dato un nome, un nome leggero che si addicesse al suo corpo magro, ma non ne trovai uno abbastanza delicato, sembravano tutti capaci di romperlo. Lo lasciai senza nome, alla fine.
Tra tante voci riuscivo a percepire solo la sua, ad ascoltarla dentro, come se leggesse per me una favola, anzi no, una storia, una storia che riguardava lui come riguardava me. Una storia di paura.
Non so in che modo, ma la vidi benissimo: c'era anche lei a quel tavolo. Non potevo non scoprirla, non potevo non riconoscerla, lei era lì, era seduta sopra di lui, come da dieci anni era seduta sopra di me.
La paura è diversa in ogni uomo, ma ha sempre la stessa forma quando comincia a sbranargli gli occhi.
È una crepa impercettibile per chi non la conosce, in realtà è un enorme buco nero che succhia ammassi di vita, avido e ingordo. Inghiotte momenti, felicità, speranze, futuro, lasciandosi dietro corpi scavati e respiri mezzi morti.
Quel ragazzo, come me, non stava respirando vita, ma l'atroce gracchiare di una stella che non si arrende alla morte.
E più mi ripetevo che stavo immaginando tutto e più il vuoto davanti a lui mi urlava il contrario.
Mentre mi chiedevo quanto bisogno avessi di un po' di luce, lui e i suoi amici si alzarono da tavola. Tutti, a parte il ragazzo dalle palpebre frananti, si avviarono verso la cassa per pagare.
Mi alzai anche io, un po' tremolante, ma sempre con il mio mare di sicurezza.
Eravamo anni luce di distanza, tuttavia lo spazio-tempo sembrava essersi piegato: la nostra era una corsia preferenziale per raggiungere i buchi neri prima di tutti gli altri. E lui ci arracava dentro tanto quanto me.
Mi guardò affaticato, appoggiai per un attimo tutti i pensieri e i sospetti sul muretto lasciandomi trainare leggera dagli ultimi secondi prima di restituirlo alla sua vita.
Quando due silenzi si scontrano, l'esplosione genera un rumore che ti spacca le orecchie. Non potevo sentirlo davvero, ma i pezzi di quel silenzio mi si conficcarono in gola. Non dissi nulla. Non feci nulla. Cosa avrei potuto fare? Niente.
I suoi amici lo raggiunsero e sparirono tutti in mezzo al delirio della sera.
Il venerdì successivo raccontai questa storia al dottore.
"Sì, come le ho detto la volta scorsa, è possibile, ma non ci faccia affidamento. Non serve sapere se altri ne soffrono per uscirne."
Non risposi. Gli lasciai un sorriso.
Poteva dire ciò che voleva, ma da quella sera intorno al mio buco nero cominciai a vedere un'enorme galassia luminosa.
Da lontano, contempli le galassie trapunte di stelle che si stringono l'una all'altra per risplendere insieme.
Ma appena col pensiero ci sei in mezzo, sei stesa sull'abisso che le separa, così vasto da non essere più lì ed ora, ma da esistere e basta.