...CERTO...OVVIO...NON DEVE PREOCCUPARSI. ALLE NOVE. LUNEDì. VA BENE. STIA TRANQUILLA. CI PENSO IO. VA BENE. VA BENE. A RISENTIRCI SIGNORA PALETTA, PASSI UN BUON WEEK END. BUONA SERATA. BUONA SERATA. A LEI.
Metto giù la cornetta. MA VAFFANCULO VECCHIA ROMPIPALLE. Sono le quattro. Altri cinquantacinque fetidi minuti e non vorrò sentire parlare di soldi se non quando tirerò fuori il portafoglio per pagare la sublime tartare di salmone che gusterò stasera. Faccio in breve il punto della situazione sulle pratiche che dovrò riprendere in mano lunedì. Le sfoglio. Evidenzio. Fascicolo. Siglo. Timbro. Fascicolo. Archivio. Archivio. Archivio: che nel gergo bancario non significa mettere in ordine documentazione di varia natura all’interno di appositi contenitori. Significa cestinare. Così come il “trapano” non è un utensile per il fai da te ma un cliente poco virtuoso, e un “giro” non è un pomeriggio dedicato allo shopping ma un trasferimento di fondi. Quasi nulla corrisponde alla propria definizione in questo ambiente.
Bevo un sorso d'acqua. Mando giù una compressa di the verde ultimo retaggio familiare della cura per la mia salute, e attraverso la plastica trasparente della bottiglia vedo avvicinarsi lui. Il direttore. IL direttore.

La figura del direttore di agenzia di una banca, da vent'anni a questa parte, ha progressivamente perso la sua aura di autorità solenne (almeno nell'ambiente bancario stesso); non bastasse, con essa ha perso anche una buona parte di prestigio, potere decisionale, e, aìlui, di riconoscimenti economici gratificanti. Conseguentemente, questo pacchetto ha trascinato con sé frustrazione e malcontento, che, come in ogni organizzazione piramidale che si rispetti si riversa a pioggia sui sottoposti, i quali, come la definizione stessa richiede, sono soggetti alle angherie tra le più sottili e viscide. L'automatismo piuttosto intuibile che ne deriva è la sensazione di impotenza di questi ultimi che sgomitando tra loro ambiscono faticosamente ad una piccola porzione di quel prestigio già di per sè esiguo e fittizio, che, però, quantomeno, permette di ottenere una buona contropartita in società. Il prodotto finito risulta essere un timballo d’impotenza con contorno di vigliaccheria in salsa di Maalox.
Esistono tuttavia eccezioni di rilievo. Parlo di soggetti da considerarsi in maniera nettamente opposta che uno si posizioni mentalmente all'interno o all'esterno dell'azienda. Mi spiego meglio: prendiamo una persona (senza che il sesso costituisca una discriminante, o almeno, fingiamo che non lo sia), di età variabile tra i trenta e i cinquant'anni, che lavori per un istituto di credito da quando era giovane e ancora piuttosto tendente all'acne. Poniamo il caso che nonostante l'esigenza imprescindibile di provvedere al proprio sostentamento, l'interesse per la sua attività lavorativa non abbia mai superato quello che può sviluppare guardare una puntata di Forum con Rita Dalla Chiesa. Mettiamo che questa persona, nonostante il suo esiguo interesse, impieghi nel suo lavoro una quantità di risorse sufficienti a definire il suo apporto all’andamento dell'agenzia, discreto.
Immaginiamo anche che abbia coltivato nel tempo una sensibilità e una lungimiranza tale che gli abbia permesso di accedere all'impopolare credenza che la vita non si limiti solo al lavoro e alla famiglia. Dotiamo questa persona di un intelletto creativo e di spirito critico e, strizzando un occhio a Belzebù, facciamo sì che queste sue caratteristiche emergano prepotentemente rispetto a quelle inerenti il suo lavoro. Ora, facendo uno sforzo sovraumano, tentiamo di visualizzare questa sorta di Frankenstein senza al suo fianco una figura che ricopra il ruolo di marito/moglie, fidanzato/fidanzata/altrametàdelcielo, insomma, immaginando che non si senta necessariamente dimezzato nell'animo per il solo fatto di non avere una persona che funga da surrogato delle proprie realizzazioni. Proviamo, invece, a creare intorno a lui/ lei, un assortimento di figure piuttosto contraddittorie, bizzarre e ricorrenti che per comodità e convenzione, chiameremo amici.
Ora che a grandi linee abbiamo in mente il nostro personaggio, credo che converremo col fatto che, seppure sia un soggetto tagliato fuori da alcuni canoni squisitamente italiani, sia ancora possibile farlo rientrare in un'esistenza cosiddetta tipica. Ora solleviamolo con una gru e infiliamolo dentro l'asettica agenzia di cui si parlava all'inizio. Ecco che d’improvviso è diventato un caso umano irrecuperabile, non degno di nota nel migliore dei casi, nel peggiore tendenzialmente sovversivo, in entrambi da osservare con occhio diffidente.
Eccomi. Sono io.

Rimetto il tappo alla bottiglia, mi asciugo la bocca col dorso della mano. Noi bancari si beve molta acqua. Non so per quale motivo.

È un’intercalare.

A CHE PUNTO SEI CON LA PRATICA DELLA SIG.RA ARTUSIO?

L'HO SENTITA STAMATTINA, LUNEDì CI PORTA TUTTA LA DOCUMENTAZIONE E CI FIRMA LA RICHIESTA DI PRESTITO.

EH. STALLE DIETRO CHE COI PRESTITI NON SIAMO NEMMENO A UN QUARTO DEL BUDGET. E SIAMO AD OTTOBRE.

EH.

POCHI “EH”! STA SETTIMANA MI HANNO FATTO UN CULO A TOMBINO. NON SIAMO GLI ULTIMI TRA LE AGENZIE DELL'AREA SOLO PERCHE’ DUE FILIALI HANNO APERTO DA UN MESE. FAI TE.

NON SO CHE DIRTI, IO FACCIO COSA POSSO.

..E ALLORA VEDI DI INIZIARE A FARE QUELLO CHE NON PUOI.

CERTO. PENSAVO DI CHIEDERLO PER ME UN PRESTITO!

NON SCHERZARCI TROPPO. IL REFERENTE DELL’AGENZA CINQUE HA RAGGIUNTO L’OBIETTIVO UN MESE FA FACENDO PRESTITI A META’ DELLA SUA FAMIGLIA.
Lo guardo fisso per qualche secondo. L’espressione di disgusto sulle labbra. Lui regge il mio sguardo finchè io non lo abbasso con la scusa di leggere la notifica di una mail appena apparsa sullo schermo. E’ una battaglia che non prevede vincitori, solo dispendio di energie. Il burattino mi dà le spalle avvolte dal cardigan grigio topo e torna nel suo ufficio; mi alzo e do un calcio alla sedia con le rotelle sulla quale stavo poggiata. I colleghi, occhi sulle scrivanie, continuano a fare il loro lavoro fingendo di essere impegnati in compiti più urgenti del farsi i fatti miei. Prendo la borsa e faccio per uscire. Tra le due porte d’ingresso gli squilli ininterrotti dei telefoni si fanno sempre meno percettibili. Si apre la seconda porta e l’aria del centro di Torino per un momento, mi pare la cosa più pura che abbia mai respirato.
Piazza Statuto è un crocevia al quale non sono mai riuscita a dare un'identità ben precisa. Passa tutto e non lascia mai niente. Nemmeno le cose che stanno lì da una vita mi danno l'impressione di far parte di questa piazza. I vecchi portici incorniciano a ferro di cavallo il maestoso monumento che si bagna i piedi nel suo laghetto melmoso popolato da insoliti pesci rossi grossi come trote. Probabilmente dovrebbe bastare questo a suscitare suggestioni da manuale, ma a me ha sempre dato una sensazione di disagio e decadenza, come una stanza disordinata e polverosa di cui nessuno ha voglia di occuparsi. Come un’immagine che qualcuno avesse creato al solo scopo di farci una serie di cartoline souvenir su Torino. Di quelle che si vendono alla stazione di Porta Nuova, tanto vecchie che hanno i bordi ricurvi per l’umidità presa.
Entro nel bar appena accanto all'ingresso della banca ordino un caffè macchiato, il ragazzo al bancone mi risponde SUBITO! e in pochi secondi il mio caffè è pronto con tanto di schiumetta al latte che si è infilata in quella al caffè a forma di cuore, o almeno questa è l'interpretazione che ne diamo noi donne. Probabilmente un uomo ci vedrebbe una castagna. O una piccola rapa. Tipo una barbabietola. Apro la mia bustina di zucchero di canna e la svuoto tutta sulla schiuma, quella fa un po' di resistenza, si gonfia ai lati, dopodichè si apre al peso dei granelli e li fa affondare come in una versione miniaturizzata di sabbie mobili. Giro giro e continuo a girare fin quando smetto di sentire il ruvido dello zucchero al fondo della tazzina. Avrei bisogno di una camomilla, ma la ritualità del caffè è più rapida e affascinante. Io appartengo al popolo dei caffeinomani da breve tempo. La persistenza del suo sapore fino a qualche anno fa mi era insopportabile, poi per esigenze di carattere pratico mi sono convertita. Principalmente per due motivi: senza caffè la mattina non riuscirei ad essere attiva prima delle dieci, è il primo. Il secondo e non meno importante: la società è spietata nei confronti di chi non beve caffè ("Ti andrebbe di prenderci un caffè??" , piuttosto che "esco per la pausa caffè"). Mando giù il contenuto della tazzina in più riprese, raccolgo col cucchiaino la schiumetta residua e metto insieme quella briciola di spirito zen che alberga in me ancora a fatica pensando: è venerdì, ultimo sforzo. Sospiro sollevata. Rimesto un po’ nella borsa di pelle nera, e al fondo ci trovo una moneta da un euro orfana di portamonete. Mi sporgo sul bancone per cercare il ragazzo che mi ha servita poco prima. Lo ritrovo al capo opposto. Dritto come una scopa, con i capelli neri ben tirati all’indietro dal gel e un colorito ambrato piuttosto innaturale per la stagione. Sta discutendo, tiene la voce bassa ma è risoluto e contrariato. Gesticola molto per compensare i toni bassi che è obbligato a mantenere, aggrotta le ciglia. Continua a dissentire col capo mentre tra le mani tiene una tazzina avvolta da un canovaccio. Si agita, continua a mormorare infervorato e a lucidare la tazzina che, a mio parere, più lucida non potrà diventare. Di fronte a lui dall'altra parte del bancone una donna sulla cinquantina dai capelli mogano con ricrescita grigia di qualche centimetro. Ha un viso un po' scarno e delle occhiaie gonfie e scure che le rendono gli occhi color nocciola piccoli e insignificanti. Tenta di convincere il ragazzo di qualcosa, lo guarda supplichevole, con le estremità esterne delle sopracciglia abbassate, come un San Bernardo. Carpisco qualche parola e intercetto qualche risposta. Dopo un tira e molla che dura un paio di minuti circa il ragazzo liquida la donna seccato, lei lo manda a quel paese con un gesto sufficientemente esplicito, dopodichè si volta e si siede ad una macchinetta mangiasoldi alle sue spalle. Il ragazzo le lancia un ultimo sguardo di disapprovazione poi si avvicina a me come se non fosse accaduto nulla e sfoderando tutta la sua etica professionale, posa la tazzina e il canovaccio e mi sorride. PERDONAMI.VOLEVI PAGARE VERO? SONO NOVANTA CENTESIMI, GRAZIE MILLE!. Va verso la cassa, posa la moneta, ne tira fuori dieci centesimi torna da me e mi ringrazia ancora. Esco dal bar. Lasciandomi alle spalle l'immagine della sig.ra Artusio che infila nella macchinetta almeno il doppio dei soldi che le basterebbero per rifarsi la tinta.

Rientro in agenzia e l'atmosfera si è riaccomodata nella sua usuale anormalità.
Attraverso i vetri del suo ufficio intravedo Marco, coi grassi capelli arruffati, che gesticola come se l'interlocutore dall'altra parte del telefono lo potesse vedere. Parla in maniera concitata, saluta rigido, sorride, poi torna subito serio, mette giù, sbuffa, si alza, tira su i pantaloni e si liscia la nuca con una mano. Leggo il labiale. FAMMI ANDARE A PISCIARE, dice. Ma lo sta suggerendo a sé stesso. Il suo telefono ricomincia a squillare, lui ormai sull'uscio si volta e fa per tornare indietro, poi ci ripensa, si volta e riprende la sua rotta in direzione bagno, passando di fronte all'ufficio di Monsieur Le Directeur che assorto davanti allo schermo del pc, probabilmente starà decidendo dove prenotare la cena di stasera in compagnia della consorte fedifraga.
Lo sportello è chiuso alla clientela da ormai mezz'ora. Marina è alla cassa. Con la sua mole titanica, a vederla seduta lì tutto il giorno talvolta mi è venuto il dubbio che sia diventata parte integrante della sua postazione. E' impossibile avvicinarsi a lei e non essere investiti da un odore che è caratteristico di quel metro quadro. Inizialmente pensavo fosse il suo odore. Col tempo, invece, ho imparato a sezionarlo, a separare le varie componenti di quella puzza sopportabile e nauseante al contempo. C'è l'odore della sua pelle, è acre e ricorda lontanamente l'aceto di mele. Nelle giornate di scadenza di pagamento dell'IVA per le aziende, si espande oltre i limiti del metro quadro, all'intero salone. Me ne accorgo in particolar modo quando torno dalla pausa caffè. C'è poi l'odore delle banconote usurate, l'odore della cellulosa sporca e consumata, che somiglia a quello di un posacenere sporco misto a umori di origine sessuale. C'è anche l'odore dei fogli intonsi e della carta che esce calda dalla stampante. Una banca è piena di odori. Tutto ciò su cui ci si può fare un'opinione ne ha uno. Marina è un monolite senza storia. Probabilmente il suo odore è la personale vendetta del suo corpo rispetto a quest'anonima, eterna presenza. Fascetta mazzette di banconote da 50 euro. Parla da sola e schiaffeggia la macchina contabanconote che si inceppa in continuazione. La spegne, la riaccende, quella fa il rumore di un frullatore e dopo poco si riblocca. Marina bestemmia in piemontese. Crede che non lo sappia che bestemmia perchè ho origini siciliane, ma lo so. Una persona suona all'ingresso. Chiede qualcosa scandendo bene ogni parola al di là del vetro. Capiamo solo VERSAMENTO!, Marina parte con un vaffanculo tra i denti, poi si alza e con le braccia gli fa una X. SIAMO CHIUSI. CHIUSI. E poi facendo ruotare l’indice: DOMANI! VENGA DOMANI!
C'è ancora frenesia, ma è un'agitazione diversa da quella che c'è durante l'apertura al pubblico. E' più verace. E' vero nervosismo. Quello che non necessita di frasi di circostanza, di chiacchiere forzate o di sorrisi di plastica. Le comunicazioni sono ridotte all'osso. Ci si parla solo in caso di reale necessità, altrimenti ci si chiude in un mutismo nevrotico. Quando manca solo più qualche minuto all'uscita ecco che l'atmosfera cambia ancora: è come se la mente si posizionasse nuovamente in posizione ON, ma lentamente. E' una sorta di camera di depressurizzazione quell'ultimo momento, come dirsi che sì, ora possiamo tornare a riappropriarci della nostra umana identità.

Mi siedo. Una mano alla fronte, l'altra sulla scrivania. Le dita che tamburellano un ritmo nevrotico. E ADESSO COME GLIELO DICO DELLA SIG.RA ARTUSIO, penso, mentre vedo riapparire il mio personalissimo grillo parlante sulla calcolatrice alla mia destra.

È VENERDÌ, RIMANDA. Mi sussurra.

Manuela Catania

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2 Commenti

  1. evviva... che bello rileggerti... e che racconto... comunque sì... è venerdì e tanto vale rimandare a... LUNEDì!


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